Pubblicato il 04/03/2022, 19:03 | Scritto da La Redazione

Alessandro Cattelan: Da sette mesi non leggo più i commenti sui social

Chiedimi se sono felice

Il Venerdì de La Repubblica, pagina 14, di Michele Serra.

Felicità è una parola imbarazzante. O perché troppo “alta”, nel repertorio dei filosofi e dei rari poeti che l’hanno presa in considerazione (è ben più maneggevole la malinconia). O perché, al contrario, troppo banale, bamboleggiante, non adulta. Roba da cameretta dei bambini, con tutto il rispetto per le camerette dei bambini. Ci vuole dunque un bel coraggio per architettare e realizzare una serie tivù (il termine tecnico è docu-show) sulla ricerca della felicità, in uscita dal 18 marzo su Netflix, ovvero visibile in mezzo mondo.

Lo ha fatto Alessandro Cattelan, star della televisione pop italiana meno tradizionale. Gavetta su Mtv, “giovane che piace ai giovani”, poi conduttore di talk show molto sciolti, successo grosso come frontman di X Factor, un’esperienza così così con la Rai e lo show generalista, oggi mina vagante in cerca di una rotta per la maturità. Lo ha fatto, Cattelan, e ha fatto bene, perché il suo viaggio attraverso persone e luoghi (sei puntate in tutto, per adesso) ha qualcosa di molto vivo, molto “fisico”, con le storie delle persone, e soprattutto le loro facce, che reggono senza arretrare di un passo il peso di una conversazione spesso impegnativa, a volte dolorosa. Niente che sembri studiato o artefatto, malgrado la sapienza registica e qualche malizia d’autore (per esempio l’intervista alla giovane coppia di porno-attori: per altro gradevoli e quasi parlanti).

L’empatia con gli intervistati

Verrebbe da dire che è un lavoro “poco televisivo” se la nuova televisione, invece, non stesse viaggiando, da anni, anche fuori da se stessa, come se volesse incamminarsi all’aria aperta, prendere le distanze dagli studi, dalle scalette, dai palinsesti, dagli show classici così come dai reality, che sono un format ormai paludatissimo, risaputissimo… L’impostazione “leggera” che il conduttore-autore rivendica come sua cifra personale non soccombe mai alle domande pesanti, ai momenti di incertezza, ai silenzi inevitabili.

All’occorrenza, Alessandro fa anche il cretino, e lo fa al momento giusto. Ha molta misura. Non si ha mai l’impressione che si sia messo nei pasticci alzando troppo il tiro, affrontando, per sfida, temi che esulano, diciamo così, dalle sue competenze e dal suo curriculum. È perfettamente nei suoi panni quando parla di morte con Gianluca Vialli e di religione con Paolo Sorrentino. Non c’è sfoggio finto-colto. C’è molto interesse per gli altri. Molta empatia con i suoi compagni di chiacchierata. Si intuisce, strada facendo, che il suo viaggio non è casuale, deve avere preso l’abbrivio da una salutare incrinatura, da un dubbio, da un sospetto esistenziale. Magari la prima, breve crisi della mezza età, che a 41 anni, con due figlie che cominciano a fare domande complicate, non sarebbe inattesa…

Da una domanda di mia figlia

«Sì, di carattere sono uno leggero, il mio approccio con le cose è quello. Mi sentivo addosso, però, una specie di stress immotivato, forse gli anni che passano, forse i tempi difficili, la pandemia, il lockdown. Evidentemente non bastano il successo, i soldi che nel mio caso sono sicuramente più di quelli che servono, una bella famiglia, il benessere. È complicato essere soddisfatti. Così quando mia figlia, dieci anni, mi ha chiesto “come si fa a essere felici”, io non sapevo cosa risponderle. E quella semplice domanda mi è rimasta dentro ed è poi diventata il titolo della miniserie: Una semplice domanda».

Più tardi, appena finita la nostra chiacchierata via Skype, ho cercato l’etimologia di “felicità”. Deriva dall’antica radice sanscrita fe, che indica fecondità e ricchezza (i due concetti, nel nostro passato agricolo, erano strettamente apparentati). Ha dunque molto a che fare, l’idea antica della felicità, con il benessere materiale, con il granaio pieno e la fertilità dei campi e delle famiglie. Poco di filosofico, molto di concreto. La fame e la paura dominarono le vite dei nostri avi. Dunque è legittimo inquadrare l’inquietudine di Cattelan nel classico paradosso delle società del benessere: ho tutto, non mi manca niente, non ho fame, non sono in schiavitù, perché dunque non mi godo la vita come dovrei e come vorrei?

«Per girare uno degli episodi della serie mi sono chiuso per una notte in un grande ipermercato con il mio amico Francesco Mandelli. L’idea era: possiamo prendere tutto quello che vogliamo. Il consumo sfrenato, libero. In teoria, per molte persone, quella è la felicità, no? Beh, alla fine ci siamo resi conto che ci eravamo ricostruiti, in un angolino, una specie di minimondo del tutto identico al nostro, a quello che avevamo già, che avevamo sempre avuto, che ci è sempre piaciuto. Come per difenderci nel nostro fortino. Perché ci siamo resi conto che puoi anche avere tutto, ma se sei un coglione rimani un coglione».
(Continua su Il Venerdì de La Repubblica)

 

(Nella foto Alessandro Cattelan)