Pubblicato il 15/04/2022, 18:25 | Scritto da La Redazione
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Pietro Labriola: da figlio di una centralista ad amministratore delegato di Tim

Pietro Labriola: «Io, i tatuaggi mistici e il destino da figlio di una centralinista»

La Repubblica, pagina 26, di Giovanni Audiffredi.

Poco sopra il gomito sinistro, incastonata in un elaborato tatuaggio che gli decora l’intero braccio fino al pettorale, Pietro Labriola ha disegnata una Daruma: «È una bambola votiva giapponese che ha un occhio con la pupilla e l’altro vuoto. Da completare solo quando l’idolo esaudirà il mio desiderio. Ho anche un dragone sul polpaccio destro, ma quello è meno mistico». Al polso, invece, un prezioso orologio Royal Oak di Audemars Piguet, oggetto del desiderio degli esteti bold style.

Nominato lo scorso 21 gennaio nuovo amministratore delegato del gruppo Tim, ha scelto di raccontarsi per la prima volta a dLui. Già direttore generale, Labriola è un veterano in azienda, dove ha ricoperto plurimi incarichi: «Sono stato assunto il 1° ottobre, giorno del mio compleanno, del 2001». È un top manager d’assalto, scelto per guidare la più importante realtà industriale delle telecomunicazioni in una fase molto delicata. Sul tavolo, l’interesse di un’Opa del fondo americano Kkr e la rinegoziazione del contratto da 340 milioni l’anno con Dazn per la trasmissione in streaming del campionato di Serie A con TimVision. Senza contare i venti di guerra che provocano allarmi sulle reti: «Abbiamo innalzato a spese di Tim tutti i livelli di cybersecurity».

È il ritratto di un uomo vulcanico: «Gli amici del calcio mi chiamavano “polmone umano”, per la mia capacità di andare avanti e indietro per il campo per 90 minuti. A Rio de Janeiro, quando ero amministratore delegato di Tim Brasile, correvo la domenica sull’Avenida Oceanica, nei momenti migliori facevo 10 chilometri in 46 minuti, quei poveretti della scorta impazzivano a starmi dietro. Sono un agonista e a farmi superare non ci sto».

Corre ancora?
«Tre volte la settimana, vado in palestra e poi nuoto. Per fare il mio lavoro 14 ore al giorno ci vuole il fisico. Devi buttare fuori lo stress».
Appassionato di motociclismo, F1, ma soprattutto di Inter.
«La moto è meglio che non la compri, mi schianterei. Faccio le impennate pure con la mountain bike, figuriamoci. La mia più grande gioia sportiva è stata quando la Bari, squadra della mia città, arrivò in serie A».
Dov’era la notte del Triplete nerazzurro?
«A Madrid alla finale di Champions League, naturalmente».
È vero che sua madre era centralinista Telecom?
«Sì, rispondeva al servizio 1012. La vedevo molto poco, faceva orari che non combaciavano con le esigenze della scuola. Turni a Natale e Capodanno. A otto anni avevo le chiavi di casa. Passavo a prendere mio fratello, di tre anni più piccolo, e mi mettevo a cucinare».

Trasferirsi da Bari a Milano come è stato?
«In metropolitana mi sentivo l’unico a colori in un mondo in bianco e nero. Ma sapevo che se fossi rimasto a Bari oltre i 35 anni, poi sarebbe stato impossibile muovermi e mi sarei adagiato come molti. Non faceva per me».
Come è entrato in Tim?
«Con Riccardo Ruggiero, che avevo conosciuto in Infostrada. Mi chiamò per ristrutturare LefTelecom, una controllata in Francia».
Aveva già un’esperienza di 15 anni nelle telecomunicazioni.
«Prima in France Telecom Transpac e poi in Infostrada dove lavoravo facendo arbitraggi sulle tariffe».

Di idee creative ne ha avute parecchie anche in Tim.
«Ho partecipato al lancio di Alice, adsl di Telecom Italia. L’idea di un nome femminile la ebbe Maurizio Costanzo. Avevamo fatto una ricerca sui 10 nomi di bambina che gli italiani stavano dando di più alle loro figlie. Poi inventai Aladino, il telefono che fa il telefonino e Rosso Alice, che lanciava in diretta le partite di Serie A».
Nuove campagne in vista?
«Sto cercando di sponsorizzare il nuovo Jova Beach Party. Jovanotti è trasversale e intergenerazionale. Esattamente quello che cerchiamo noi, dovendo intercettare dagli adolescenti agli anziani. Sono così anche i Mäneskin, che mia madre adora. Credo molto nel coinvolgimento dei giovani. Per questo ho deciso che sarà un sondaggio tra i figli dei dipendenti Tim a indicarci quali tariffe e servizi pensare per loro».
La sua prima riunione in Tim?
«Entrai nella stanza e per cinque minuti restammo in silenzio. Allora domandai: “Chi aspettiamo?”. Mi risposero: “Il Dottor Labriola”. “Sono io”. Avevo 33 anni, pieno di grinta e ambizione. I tatuaggi li ho fatti dopo, come opere d’arte sulla mia pelle. Il peccato di gioventù è stato l’orecchino a 16 anni. È vero che l’idea di una persona te la fai dall’apparenza nei primi due minuti di conversazione, ma a me è sempre piaciuto marcare la differenza. Dobbiamo valutare le persone non per il loro modo di essere, ma per i risultati che portano».
(Continua su dLui de La Repubblica, domani in edicola)

 

(Nella foto Pietro Labriola)