Pubblicato il 21/03/2016, 14:35 | Scritto da La Redazione

Il piano Bolloré-Berlusconi per portare Mediaset sotto le insegne francesi – La lottizzazione renziana impoverisce la Rai

Rassegna stampa: La Repubblica, pagina 14, di Giovanni Pons e Claudio Tito.

Il piano Bolloré-Berlusconi per portare Mediaset sotto le insegne francesi

Vivendi pronta a scambio di azioni, primo passo per l’acquisizione È la grande battaglia della nuova tv. Il governo sceglie la linea neutrale

Le tv di Mediaset potrebbero presto finire sotto le insegne francesi. Ed essere inglobate dal colosso dei media Vivendi guidato dal finanziere Vincent Bolloré. Con il governo Renzi in posizione neutrale in quanto non ha intenzione di interferire se si tratta di accordi tra società private e quotate in Borsa. Secondo fonti attendibili i colloqui delle settimane scorse tra esponenti della famiglia Berlusconi e i vertici della società transalpina avrebbero già portato a un accordo di massima. Uno scambio azionario tra Vivendi e Mediaset sancirà l’accordo tra i due gruppi dei media che a un gradino inferiore si svilupperà attraverso la gestione da parte di Canal Plus dei canali di Mediaset Premium, e a un livello più alto prevede la co-produzione di contenuti di qualità che andranno ad arricchire i palinsesti della nascente piattaforma Over the top (tv via Internet) alternativa a Netflix nell’Europa del Sud. Insomma un piano ad ampio raggio che è stato messo a punto da Bolloré, il suo entourage e da Silvio Berlusconi, il quale alla soglia degli 80 anni si è ormai convinto che il futuro di Mediaset non può essere gestito in famiglia (in un primo momento aveva pensato di avviare il negoziato con il suo “amico” Murdoch che però gli ha fatto sapere di volersi concentrare su Time Warner).

Proprio le resistenze dei figli a una vendita secca di Mediaset hanno fatto in modo che il passaggio di mano avvenga in modo graduale e progressivo. Ma fin dall’inizio dovrebbero essere messi nero su bianco anche i passaggi successivi che porteranno nell’arco di qualche anno Vivendi a controllare il gruppo del Biscione e la famiglia Berlusconi a detenere un pacchetto importante della società media francese. Di tutto ciò è stato avvertito il governo di Matteo Renzi, probabilmente da Bolloré in persona in un incontro con il premier italiano svoltosi circa un mese fa mentre per il fronte Mediaset è il presidente Fedele Confalonieri che ha fatto sapere a palazzo Chigi dell’operazione allo studio. L’accelerazione è avvenuta a causa del pessimo andamento dei conti di Mediaset Premium, la pay tv che per fare concorrenza a Sky si è assicurata i diritti della Champions League di calcio per la cifra astronomica di 710 milioni in tre anni. La prevista crescita di abbonati non si sta verificando nei termini sperati e a Cologno Monzese si è acceso l’allarme rosso. La possibilità poi che nel prossimo futuro possa prendere piede la tv on demand grazie alle serie tv che Netflix ma anche i grandi aggregatori digitali potranno offrire agli utenti, ha reso la situazione ancora più delicata. Questa situazione è ovviamente nota a Bolloré così come al suo consiglio di amministrazione, poco propensi a un accordo che riguardi solo l’accollo di Premium e delle sue perdite da parte di Canal Plus.

Mentre invece c’è più interesse da parte di Vivendi a entrare nel settore della tv italiana “in chiaro” dove Mediaset mantiene una solida quota di mercato nella raccolta pubblicitaria (il 57% del totale). Con Pier Silvio che progressivamente passerà le leve della gestione operativa a un team di manager che abbiano la fiducia dei francesi. A lui viene infatti addebitata la costosa scelta per Mediaset di entrare nel mercato della pay tv come secondo operatore, pensando che vi fosse spazio per entrambi. Ma la realtà si è dimostrata diversa e oggi pesa anche la scelta di uscire da Endemol, il produttore di contenuti internazionale che era stato acquistato da Mediaset a metà degli anni Duemila ma con una leva finanziaria troppo esasperata. Il grande disegno Vivendi-Mediaset prevede poi una seconda fase di non secondaria importanza e che riguarda le infrastrutture, cioè le torri di trasmissione del segnale televisivo. Qui il governo farà sentire la sua voce spingendo perché le torri tv di proprietà di Ei Towers (Mediaset) vengano unite a quelle di Rai Way in un polo che però dovrà essere a maggioranza pubblica, e quindi con l’intervento di un operatore tipo Cassa Depositi e Prestiti o di un fondo collegato a essa. Ma a questo punto il risiko si fa ancora più complicato e chiama in causa anche Telecom Italia, di cui Vivendi controlla la quota di maggioranza relativa, il 24,9%. Telecom un anno fa ha scorporato le proprie antenne di trasmissione in una società chiamata Inwit, l’ha quotata in Borsa e poi ha messo in vendita il 45% del suo 60%. La decisione finale sulla vendita doveva essere assunta giovedì scorso ma il cda ha deciso di prendere altro tempo per valutare meglio le due offerte arrivate, quella di Cellnex-F2i e quella di Ei Towers (Mediaset).

È possibile che il redde rationem tra l’ad di Telecom Marco Patuano (che oggi dovrebbe formalizzare le sue dimissioni) e gli azionisti di Vivendi sia scattato proprio ora perché i francesi hanno intenzione di indirizzare meglio la vendita di Inwit, magari proprio nelle braccia della società di Berlusconi. E così il cerchio potrebbe chiudersi, proprio grazie alla presenza su più fronti dei francesi di Vivendi che da una parte comprano Mediaset togliendo le castagne dal fuoco alla famiglia del fondatore di Forza Italia e dall’altra gli assicurano il controllo delle infrastrutture tic, che come noto sono equiparabili a un bond, producono reddito sicuro e costante nel tempo. Lasciando alla mano pubblica le infrastrutture legate alla televisione ma che sono anche quelle con minori prospettive di sviluppi futuri. Un disegno perfetto, quello di Bolloré e Berlusconi, anche se bisognerà vedere se andrà in porto in tutte le sue parti.

 

Rassegna stampa: Il Giornale, pagina 4, di Arturo Diaconale.

La lottizzazione renziana impoverisce la Rai

Raffaele Agrusti, chief financial officer della Rai in sostituzione di Camillo Rossotto passato alla Lavazza, è solo l’ultimo di una lunga serie di innesti esterni al vertice dell’azienda radiotelevisiva di Stato. Nessuno sa se questa immissione di «esterni» si fermi con Agrusti o sia destinata a continuare. C’è chi dice che la quota di dirigenti provenienti da fuori viale Mazzini stabilita dalla legge di riforma della Rai sia ormai esaurita e chi afferma che il calcolo deve partire dal momento in cui il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto è diventato amministratore delegato e che la quota deve essere ancora raggiunta. Qualunque possa essere la risposta è comunque un dato di fatto incontrovertibile che in otto mesi il vertice della Rai sia cambiato radicalmente. Si può discutere se in bene o in male. Ed è facile concludere, per evitare di prendere posizioni preconcette, che solo i risultati futuri potranno stabilire se questo radicale cambio della guardia al vertice della Rai sia stato positivo o negativo. In attesa che i nuovi diano prova delle loro capacità, però, è possibile compiere qualche valutazione generale. La prima è che un cambiamento così profondo operato con l’inserimento di esterni comporta una valutazione ovviamente negativa degli interni. Cambiare è necessario. Ma è possibile che tra 12mila dipendenti non si siano trovati quelli in grado di assumere responsabilità apicali? E come evitare che l’innovazione venga vissuta come un’operazione punitiva destinata a suscitare malcontento e, soprattutto, costosi contenziosi?

La seconda è che tra tre anni (tanto durano i contratti dei nuovi dirigenti) la Rai potrebbe ritrovarsi decapitata e con la necessità di tornare a rinnovare completamente la propria «testa». Il che può essere un vantaggio vista la velocità delle trasformazioni tecnologiche e di mercato. Ma anche il rischio di ritrovarsi con un’azienda acefala proprio in momenti in cui servirebbe una stabilità di comando e di gestione. La terza è che il calzino rivoltato di viale Mazzini, oltretutto molto costoso, sembra avere una motivazione di efficienza decisionale in cui non sembra trovare spazio la tutela del pluralismo non in termini di lottizzazione ma di rispetto per le diverse sensibilità politiche e culturali del Paese. on è facile tradurre in pratica questa tutela del pluralismo.

Ma uno sforzo per evitare che la Rai sia solo renziana o solo politicamente corretta, che al posto dei partiti di un tempo si installino le lobby di oggi, che conduttori, opinioni e ospiti siano tutti di un colore o di poche agenzie, va comunque fatto. Altrimenti il calzino rivoltato diventa un calzino bucato, da dove escono i soldi dei contribuenti e i valori di democrazia e di libertà del Paese.

 

(Nella foto Antonio Campo Dall’Orto)