Pubblicato il 02/11/2021, 17:04 | Scritto da La Redazione
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Vi spiego io il successo di “Squid Game”

Vi spiego io il successo di “Squid Game”
La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: «C’è una formidabile sintonia del racconto con lo spirito dei tempi. L'autentico snodo sta nel fatto che il gioco è frutto di una scelta collettiva dei giocatori. Mentre nello schema classico il giocatore debole o è ignaro della posta in gioco o è forzato a giocare, nel Gioco del Calamaro le regole sono chiare e condivise”. Scrive l’ex magistrato, e ora scrittore, Giancarlo De Cataldo, che spiega i punti di contatto con “La casa di carta” e “Breaking Bad”.

La metafora del calamaro

La Repubblica, pagina 24, Giancarlo De Cataldo.

Ma perché siamo tutti pazzi per Squid Game? Bastano una messa in scena ben realizzata, situazioni ad alto impatto emotivo, una spolverata di esotismo, dinamiche relazionali perfettamente concepite, un meccanismo di suspense ad orologeria a giustificare la calamaro-mania che sta invadendo l’Occidente? L’impianto, a ben vedere – un gioco tragico con la vita come posta in palio – non brilla per originalità. Si tratta anzi di un tema più volte affrontato dalla fantascienza classica (e non solo): da La settima vittima di Robert Sheckley, portata sullo schermo da Elio Petri con Mastroianni e Ursula Andress (e sceneggiatura di Flaiano e Tonino Guerra), sino alla più recente saga di Escape Room, passando per I Giocatori di Titano di Philip K. Dick, Quintet di Altman, Le mele marce di Peter Collinson e La musica del caso di Paul Auster, non mancano esempi di narrazioni che associano il gioco alla perversione.

Che si tratti del trauma della guerra, dalla natura aliena di qualche giocatore, dalla noia dei ricchi poco conta: lo statuto prevede la lotta fra un giocatore molto potente e uno molto debole. La sproporzione deve essere estrema, così come la crudeltà del più forte: condizione necessaria per la riedizione del mito di Davide e Golia che ci induce a schierarci con il giovanetto armato di fionda contro il mostruoso gigante. Lo facciamo senza ombre, dimenticando, per esempio, che sovente il giocatore debole è sceso in campo perché spinto dall’avidità, difettuccio che viene sollecitamente perdonato a fronte della protervia del nemico.

I topos di Squid Game

Fin qui, Squid Game gioca ancora nel campo della tradizione: tutti questi elementi ricorrono nella serie coreana, i giocatori hanno qualcosa da farsi perdonare e i cattivi sembrano imbattibili. E qui subentra il vero fattore di originalità: una formidabile sintonia del racconto con lo spirito dei tempi. L’autentico snodo sta nel fatto che il gioco è frutto di una scelta collettiva dei giocatori. Mentre nello schema classico il giocatore debole o è ignaro della posta in gioco o è forzato a giocare, nel Gioco del Calamaro le regole sono chiare e condivise. Si firma un contratto in base al quale le vittime accettano di essere tali in vista del miraggio dell’arricchimento.

Lo fanno perché convinte di non avere alternative. Anche questo tema – la scelta estrema dell’individuo con le spalle al muro – non è originale. Ma non era mai stato declinato in questo modo. I controllori di Squid Game indossano tute che ricordano vagamente un’altra serie di grande successo – La casa di carta – anch’essa figlia dei tempi; ma nel racconto di Tokyo e compagnia vibra una vena anarcoide, da giovane Brecht (meglio rapinare una banca che fondarne una) che nella serie coreana è assente. La casa di carta è un’evoluzione di Breaking Bad: Walter White si reinventa narcotrafficante in un mondo che ti sbatte in faccia tutte le porte, perché di questi tempi essere bravo, onesto e virtuoso non basta se hai un cancro, un figlio malato e l’assicurazione ti mangia l’anima.
(Continua su La Repubblica)

 

(Nella foto Squid Game)