Pubblicato il 08/11/2023, 13:01 | Scritto da La Redazione
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É sempre più House of Rai

É sempre più House of Rai
E' iniziata la guerra nella Rai? L'amministratore delegato, l'ex democristiano Roberto Sergio, contro il direttore generale meloniano Giampaolo Rossi? E chi lo sa. Entrambi smentiscono, e sanno anche essere convincenti, ma dentro l'azienda, nel cda e pure in Parlamento non si parla d'altro. Così su Il Foglio.

Ultimo tango alla Rai

Il Foglio, di Salvatore Merlo, pag. 1 – 4

E’ iniziata la guerra nella Rai? L’amministratore delegato, l’ex democristiano Roberto Sergio, contro il direttore generale meloniano Giampaolo Rossi? E chi lo sa. Entrambi smentiscono, e sanno anche essere convincenti, ma dentro l’azienda, nel cda e pure in Parlamento non si parla d’altro. Ovvero di due fazioni e due partiti dentro il palazzone di viale Mazzini. Sarebbe bastato, lunedì sera, osservare chi andava alla presentazione del libro di Angelo Mellone, direttore del Daytime Rai e una vita da intellettuale di destra, e chi invece quasi allo stesso orario ma in un altro luogo della capitale è andato alla presentazione del film di Roberto D’Agostino prodotto dalla Rai, per avere quasi conferma – come si suol dire: plastica – di questa sensazione. Com’è noto questi piccoli eventi di presenzialismo romano “parlano”. E allora da una parte, quella di Mellone, ecco la Rai degli arditi meloniani, diciamo, i direttori e i capistruttura del dg Rossi. Tutti. Mentre da D’Agostino ecco l’eternità del potere Rai, l’altro spicchio dell’azienda, quello che sostiene l’ad Sergio, all’incirca da Mario Orfeo a Paolo Del Brocco, nomi quasi sconosciuti al grande pubblico, eppure importantissimi. Gli eterni, anzi gli highlander: gli immortali. Basti pensare che Del Brocco è l’uomo che da quasi vent’anni sovvenziona praticamente tutto il cinema italiano con Rai Cinema. Qual è la storia? Sergio forse vorrebbe essere riconfermato, a giugno, malgrado quel posto sia stato promesso a Rossi. E tra i due litiganti c’è un terzo che gode. Ma andiamo per gradi.

Sullo sfondo di questo conflitto, vero, verosimile o fasullo che sia, c’è la crisi dell’azienda, che precede sia Sergio sia Rossi, una crisi industriale serissima che fa oggi della Rai, 12.700 dipendenti, 300 dirigenti e 2.058 giornalisti, un caso a metà tra l’ex Alitalia e l’ex Ilva di Taranto. In pratica un’azienda in via di fallimento, che andrebbe radicalmente ripensata e di cui nessuno sembra tuttavia preoccuparsi. D’altra parte è stato così anche per l’Alitalia e per l’Ilva, nessuno ha impedito che finissero dentro a un burrone. Tutti i governi che si succedono pregano di non essere quello che chiuderà la Rai, eppure prima o poi qualcuno tirerà giù la saracinesca. Ma sullo sfondo di questo scontro personale e di potere ci sono anche ovviamente le scelte, queste sì dell’attuale management, finora non esattamente felici dal punto di vista della programmazione e degli ascolti. Con ricadute inevitabili sulla raccolta pubblicitaria (e dunque sul bilancio). La crisi d’ascolti della Rai riempie da giorni i quotidiani di spifferi, spesso insufflati, e Sergio, che è più largo (non solo fisicamente ma pure politicamente) di Rossi, lui che insomma è democristiano e trasversale, scafatissimo e simpatico, non viene troppo coinvolto nelle critiche rivolte al prodotto e alle trasmissioni semifallimentari messe in onda dalla televisione di stato. Mentre a Rossi, che viene dalla destra di Colle Oppio ed è più un idealista che un cinico, viene attribuita, al contrario, l’intera responsabilità di ogni singolo fallimento, come se decidesse lui, e lui soltanto. E questo malgrado sia Sergio, tuttavia, l’amministratore delegato della Rai, cioè il capo dell’azienda, ovvero il responsabile ultimo di ogni scelta e di ogni decisione. Il fatto è che probabilmente la guerra competitiva a Viale Mazzini, quella che taluni avevano preconizzato tra i due proconsoli messi lì dal governo di centrodestra, sembra iniziata. L’equilibrio, già precario, è saltato. Ed è una rivalità che, come sempre, si manifesta anche sui giornali, che parteggiano (qui noi tentiamo la neutralità se ci riesce), nonché ovviamente sulle spoglie della Rai tv col suo debito ormai quasi miliardario. Secondo il progetto iniziale, condiviso dal governo, Sergio avrebbe dovuto cedere a Rossi il ruolo di amministratore delegato a giugno 2024 per poi andare in pensione o forse diventare presidente della Rai. Ruolo di rilievo, sì, ma di certo non operativo. Tuttavia le cose stanno prendendo una piega diversa. Forse. L’eternità di foresta della Rai, il corpo immortale dell’azienda, quella cerchia di manager pubblici inamovibili e che sa stare al mondo, adora Sergio perché lo considera uno dei suoi. Mentre attorno a Rossi c’è quell’ambiente ardimentoso, un po’ velleitario, e non sempre sveglissimo a dire il vero, dei “destri-destri” della Rai.
(Continua su il Foglio)