Pubblicato il 06/11/2023, 19:01 | Scritto da La Redazione
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Corrado Augias: “Questa Rai non mi piace”

Corrado Augias: “Questa Rai non mi piace”
«Su La7 parlerò di cultura. Sa cosa fece Fabiano Fabiani, quando Bernabei lo mandò via dalla direzione del telegiornale perché troppo di sinistra? Si fece nominare alla direzione centrale dei programmi culturali, che neppure esisteva. Fabiano, gli dissero, lì non c'è niente. E lui: "C'è tutto, perché tutto è cultura"». Così la sua intervista sul Corriere della Sera.

«Dopo sessantatré anni lascio la Rai per La7 Da Kennedy agli hippy, vi racconto i miei amori»

Corriere della Sera, di Aldo Cazzullo, pag. 26

Corrado Augias, lei ha scritto: «La Rai è la mia vita, è la mia casa. Non la lascerò mai». Invece…

«Invece passo a La7. Da lunedì 4 dicembre. Ho ceduto dopo anni al corteggiamento di Urbano Cairo e poi anche del direttore Andrea Salerno. Per il gusto della sfida».

Quale trasmissione farà?

«Un programma settimanale in prima serata: La torre di Babele. Un’ora di tv, dopo Lilli Gruber. Ci sarà uno spirito-guida, un ospite ad alto livello, a cominciare da Alessandro Barbero, e alla fine un personaggio a sorpresa, per tirare le somme».

In Rai lei faceva Babele, e parlava di libri.

«Su La7 parlerò di cultura. Sa cosa fece Fabiano Fabiani, quando Bernabei lo mandò via dalla direzione del telegiornale perché troppo di sinistra? Si fece nominare alla direzione centrale dei programmi culturali, che neppure esisteva. Fabiano, gli dissero, lì non c’è niente. E lui: “C’è tutto, perché tutto è cultura”».

Lei perché lascia la Rai?

«Nessuno mi ha cacciato, ma nessuno mi ha trattenuto. A 88 anni e mezzo devo lavorare in posti e con persone che mi piacciono; e questa Rai non mi piace».

Perché?

«Perché non amo l’improvvisazione. E in Rai oggi vedo troppa improvvisazione, oltre a troppi favoritismi. La tv è un medium delicatissimo. Deve suscitare simpatia, nel senso alto dell’espressione».

Chi sapeva farla?

«Ad esempio Stefano Coletta. Grande uomo di prodotto, che rilanciò Raia. L’hanno messo in un angolo».

In Rai lei entrò 63 anni fa, nel 1960.

«Con il concorso: quinto su 110. La Rai era una delle eccellenze dell’Italia del boom».

Qual è il suo primo ricordo?

«Il deserto della Libia. Salgo su un cammello, e resto terrorizzato quando si alza sulle gambe posteriori, rischiando di gettarmi a terra».

Cosa ci faceva in Libia da bambino?

«Mio padre Carlo era ufficiale dell’aeronautica. Quando entrammo in guerra, mia madre Emma mi portò in Italia con l’ultimo piroscafo che lasciò Tripoli. Papà era agli ordini di Italo Balbo, e assistette al suo abbattimento nel cielo di Tobruk».

Che idea se ne fece? Ordine del Duce o incidente?

«Mio padre ha sempre detto incidente. C’era stata una tempesta di ghibli, Balbo non avvertì che il suo aereo stava arrivando, fu scambiato per un inglese, le mitragliatrici aprirono il fuoco».

Anche suo suocero, Nino Pasti, padre di sua moglie Daniela, era un ufficiale.

«Pilotava aerosiluranti: scendeva in picchiata verso la nave nemica, lasciava partire due siluri e si risollevava per evitare le mitragliatrici. Quasi un kamikaze. Fu abbattuto, salvato, chiuso in un campo di prigionia in Kenya».

Lei che ricordo ha della guerra?

«Orribile. La fame era tremenda, nel pane trovavi pezzi di legno. Mamma mi lasciava in capo al letto quattro stracci per rivestirmi in caso di allarme aereo, ma a volte scappavo direttamente in pigiama. I rifugi a Roma erano teatri. C’erano quelli che pregavano davanti a un’immagine sacra. C’erano quelli che dormivano. E c’era lo spavaldo, che usciva a fumare proclamando: meglio morire da uomo che da topo».

E suo padre?

«Fu ferito da uno Spitfire inglese a una gamba, rischiava la cancrena, venne rimpatriato. Lo rividi all’ospedale del Celio, tutto nero per il sole e la malattia, magro come un chiodo: quasi non lo riconobbi».

Poi a Roma arrivarono i tedeschi.

«E mio padre si unì alla Resistenza, nel gruppo del colonnello Montezemolo. I nazisti vennero a cercarlo a casa, ma lui non c’era quasi mai: ogni tanto sbucava la notte, passando dal terrazzo sul tetto, ne ho un ricordo sinistro. Fu bellissimo invece quando mi portò a vedere l’ingresso degli americani».

Era il 4 giugno 1944.

«Da Porta Latina, dove abitavamo, andammo sull’Appia Antica. Non dimenticherò mai i carristi neri che tiravano caramelle e gomme da masticare, e i miserabili, che eravamo noi, che le raccattavano. Un giorno di gioia assoluta. Eppure dalla guerra non ci siamo liberati mai».

Perché?

«I nostri giocattoli erano i residuati bellici. Sistemavamo i bossoli sulle rotaie, quando passava il tram in discesa li faceva esplodere come una raffica di mitra, una volta il tramviere ci inseguì con una sbarra di ferro in mano. Oppure prendevamo proiettili di artiglieria più alti di noi, toglievamo la palla, tiravamo fuori la balistite, una sorta di spaghetti neri cui davamo fuoco… Avevamo i botti di Capodanno tutti i giorni».

Pericolosissimo.

«Un mio amico perse l’avambraccio destro per una bomba a mano».

Lei ha radici ebraiche?

«Mia nonna, Antea Anticoli, era ebrea, ma l’ho scoperto tardi, a trent’anni. Per amore si fece cristiana, e divenne ferventissima, per ascoltare Pio XII alla radio si inginocchiava. La sua stanza pareva una tomba, tutta buia, con i lumini e le immaginette. Morì molto anziana, nel sonno. Anche mia madre era cattolica, e mi fece battezzare».

Lei però è ateo.

«Non credente. Anche se si può coltivare una spiritualità intensa senza appartenere ad alcuna religione».

La sua «Inchiesta su Gesù», scritta con Mauro Pesce, ha venduto un milione di copie.

«Tolta dall’assurda mitologia in cui è stata immersa, la figura di Gesù diventa ancora più grande e più bella. Perché la sua doppia sfida, al potere romano e ai sommi sacerdoti, non è più un destino obbligato per redimere con la sua morte il peccato originale; diventa una scelta».

È vero che lei ha fatto il militare con Cesare Previti?

«Sì. Era già un filone: sarcastico, cinico. Con una decina di commilitoni non volevamo andare a messa, e allora ci facevano marciare inquadrati, avanti marsc, sotto il sole. Previti ci guardava dal sagrato sogghignando: “Ecco il plotone Giordano Bruno…”».

La Rai nel 1964 la mandò a New York.

«Il responsabile dei rapporti con l’estero era Gianfranco Zaffrani, un omosessuale alla Gide. Dovevamo organizzare il Premio Italia, lui sapeva che mi interessavo di musica, mi chiese consiglio per il concerto da offrire agli ospiti stranieri. Proposi la fantasia di Schubert a quattro mani. Rispose: “No, siamo a Napoli, facciamo il Pulcinella di Stravinsky, variazioni su musiche di Pergolesi”. Con tutto il rispetto: lei si immagina un dirigente della Rai di oggi dare una risposta così?».

Dicevamo di New York.

«La Rai aveva l’intero piano di un grattacielo sulla Sesta Avenue, il direttore era un ebreo fuggito dalle leggi razziali, George Padovano. Arrivai in nave: otto giorni da Napoli a Manhattan, con mia moglie e nostra figlia Natalia, che aveva un anno e mezzo. I mobili furono imbarcati su un bastimento che finì in balia di una tempesta: li recuperammo a pezzi. Così comprammo un po’ di arredo usato all’Esercito della Salvezza, e un paio di mobili ce li fece un giovane artista che amava il legno: Mario Ceroli».
(Continua sul Corriere della Sera)

 

 

 

 

 

 

(Nella foto Corrado Augias)