Pubblicato il 27/10/2023, 19:04 | Scritto da La Redazione
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Renzo Arbore: La memoria? É una risorsa

Renzo Arbore: La memoria? É una risorsa
Renzo Arbore vive in un museo, ma non ha intenzione di diventarlo. Ha girato il mondo e scoperto talenti. Ha inventato ciò che non esisteva e rivoluzionato ciò che c'era. Continua a studiare, a catalogare, a collezionare idee. Gli anni sono ottantacinque, lo spirito non ha età. Così la sua intervista su 7 del Corriere della Sera.

RENZO ARBORE «PENSO ALLA MORTE E IIO PAURA DELLA SOFFERENZA L’IMMORTALITÀ? HO AVUTO QUALCHE SEGNALE… SAREBBE BELLISSIMO»

7 del Corriere della Sera, di Malcom Pagani, pag. 65

Renzo Arbore vive in un museo, ma non ha intenzione di diventarlo. Ha girato il mondo e scoperto talenti. Ha inventato ciò che non esisteva e rivoluzionato ciò che c’era. Continua a studiare, a catalogare, a collezionare idee. Gli anni sono ottantacinque, lo spirito non ha età.

La sua prima canzone?

«La pupa alla finestra, una canzone friulana che mi aveva insegnato la mia bambinaia. La cantavo sotto i bombardamenti, a cinque anni. La sirena, il rifugio, la gente in pigiama. È come se avessi tutto davanti agli occhi».

La memoria è una gabbia?

«Tutt’altro. È una risorsa. Ed è strano perché sulle cose che mi sono accadute di recente a volte si stende un velo, ma il passato remoto, le sue voci e i suoi volti invece affiorano tutti fortissimi».

Cos’altro ricorda della sua infanzia?

«La noia. II sentimento preminente della provincia. Gli infiniti pomeriggi a fare lo struscio sul principale viale di Foggia. Salutavo sempre le stesse persone e intanto, passeggiando, cercavo di orecchiare un pettegolezzo, una novità, qualcosa di cui parlare».

Dalla provincia bisogna fuggire?

«La provincia è straordinaria, ma se vuoi fare l’artista prima o poi devi andare via».

Lasciarla non era semplice: significava recidere il cordone.

«Non era solo una questione sentimentale, muoversi era un’impresa. Per andare in villeggiatura a Riccione, da bambini, prendevamo un accelerato che partiva all’ora di cena e arrivava alle quattro del pomeriggio del giorno dopo. Partire significava traslocare. Sul treno caricavi i bauli pieni di piatti e tovaglie e a bordo provavi a credere che saresti arrivato davvero consolandoti con fumetti e caramelle».

Per inseguire la musica lei arrivò a Napoli.

«A Napoli gli Arbore svernavano arrivando in carrozza e con la città la mia famiglia aveva un rapporto profondo. Era considerata meno lasciva, meno tentatrice della Roma della Dolce Vita, ma l’ipotesi che mi occupassi di musica era vista comunque con sospetto. Ero stato bocciato in terza liceo, un trauma, e mio padre dopo la laurea fu chiaro: `Ti do un anno di tempo, se non lo sfrutti ti metti a fare l’avvocato come tuo fratello”».

Lei quell’anno lo sfruttò.

«Dopo un’infinità di tentativi e qualche silenzio sconfortante ebbi in extremis un colpo di fortuna e venni convocato a Roma, alla Rai, in Via del Babuino. Era l’ultima occasione prima di ritornare a casa sconfitto e mi trovai di fronte a una signorina con dei fogli in mano».

Che fogli erano?

«Le mie domande inevase. Mi disse “Oggi ne scade una per maestro programmatore di musica leggera”. Chiesi di cosa si trattasse e lei vagamente lascio cadere un “credo che si tratti di scegliere dischi in radio”. “La faccio subito” le risposi. Andai a casa di un amico, compilai la domanda su una lettera 22 e tornai a casa aspettando una risposta che non arrivò per mesi. Avevo quasi rinunciato all’idea quando arrivarono i Carabinieri a casa».

I Carabinieri?

«Avevano ricevuto una segnalazione dalla Rai di Roma e stupiti vennero a casa mia, in portineria, per informarsi. “Chi è Renzo? È il figlio del dottor Arbore?”La portiera rispose “nù bravo guaglione” e qualche giorno dopo arrivò la convocazione della Rai per un esame da maestro. Aprii il telegramma e mi fiondai a Roma. All’esame incontrai Giandomenico Boncompagni, facemmo subito amicizia. Lui sveglio, io imbranato. Superai l’esame e trascorso qualche mese mi ritrovai a immaginare programmi con lui».

Bandiera Gialla, Alto Gradimento, la lista delle sue creazioni è infinita.

«Ventuno nuovi format. Li ho contati. C’erano umorismo, scoperte, scalette finte e c’era l’intuizione, credo giustissima, di non parlare di attualità ma di lavorare con la fantasia. La fantasia beffa il contingente, restituisce eternità alle trovate del momento, permette di non invecchiare. Gli arrangiamenti, le battute e le canzoni nascevano con l’idea di non sottostare a nessuna moda e quindi di avere il dono di non passare mai di moda».

Con i suoi compagni d’avventura c’era alchimia, complicità, amicizia.

«C’era amicizia, sicuramente. Ma c’era anche stima. Prenda Mario Marenco. Un intellettuale finissimo, un ottimo designer, un eccellente architetto».

Tutte qualità.

«Sprovviste però del più elementare senso pratico. Mario era bravissimo a realizzare le cose però andava aiutato. Io e Boncompagni gli gettavamo un’esca e lui, abilmente guidato, tirava fuori delle perle che se fossero state preparate non avrebbero mai avuto la stessa efficacia. Lo stesso valeva con Nino Frassica. Eravamo come istruttori di tennis: lanciavamo la palla dall’altra parte della rete e aspettavamo la risposta».

L’improvvisazione è stata sempre la sua seconda pelle.

«Non dico che senza improvvisazione non ci sia divertimento, ma di sicuro improvvisando ci si diverte di più».

Ogni tanto, di invenzione in invenzione, capitava che qualcuno ci rimanesse male.

«Alla vigilia dell’uscita di FF. SS., il mio secondo e ultimo film dopo il Pap occhio, invitai Federico Fellini in proiezione privata. Lo avevo messo in scena, all’inizio del film, preso dall’impellente desiderio di andare in bagno. Ci rimase male. “Questa volta non ci siamo” mi disse gelido a fine film e per un po’, nonostante Giulietta Masina avesse cercato di sdrammatizzare, non ci parlammo. Fu un dolore».
(Continua su 7 del Corriere della Sera)

 

 

 

 

 

(Nella foto Renzo Arbore con Carlo Conti)