Pubblicato il 23/10/2023, 15:02 | Scritto da La Redazione
Argomenti:

Domani fa un ritratto (poco lusinghiero) di Fabrizio Corona

Domani fa un ritratto (poco lusinghiero) di Fabrizio Corona
Ogni pochi anni, ciclico e ricorrente come la maledizione di un romanzo di Stephen King, uno spettro torna a girare per l'Italia: lo spettro di Fabrizio Corona. Ogni pochi anni, puntualmente, questo minotauro un po' divo e un po' buffone torna a reclamare il suo debito di sangue nazionale. Così Fabrizio Sinisi su Domani.

Una sfinge tamarra e seducente Corona è il capitalismo italiano

Domani, di Fabrizio Sinisi, pag. 15

Ogni pochi anni, ciclico e ricorrente come la maledizione di un romanzo di Stephen King, uno spettro torna a girare per l’Italia: lo spettro di Fabrizio Corona. Ogni pochi anni, puntualmente, questo minotauro un po’ divo e un po’ buffone torna a reclamare il suo debito di sangue nazionale, e ogni volta dà l’impressione di essere lì da un tempo immemorabile, simile a quelle creature mitologiche e sanguinarie che tengono in ostaggio una città e non finiscono mai di estinguere qualche loro remoto e oscuro debito, finendo per rappresentarne il cuore segreto, il punto più intimo e inconfessabile. Questo è Fabrizio Corona per l’Italia, una sfinge tamarra e seducente, che allo scoccare della stagione minaccia il cittadino col suo enigma: un piccolo demone capace, ognivolta che riappare alla ribalta, di sottomettere un paese alla sua malia. Ci sarebbe da chiedersi in cosa consista il segreto del suo incantesimo. Non certo nelle sue scorribande penali — di pregiudicati in carriera il nostro paese non manca — o in un suo innegabile magnetismo da tronista maledetto o da bandito. No: il cuore della sua magia consiste in una formidabile capacità di trasformare la giustizia penale in Teatro.

Prodotto del berlusconismo
È il prodotto più sofisticato e perverso del berlusconismo, Fabrizio Corona: non un vampiro e neanche uno sciacallo, non un ladro e neanche ùn parassita — piuttosto un regista, una macchina felliniana passata al lato oscuro, capace più di chiunque altro di trasformare la materia penosa e meschina delle colpe umane in un grande show nazionalpopolare. Quello che da vent’anni porta in giro è un allucinato circo di colpe e castighi, che si muove nel tempo invece che nello spazio. Non si capisce Fabrizio Corona senza intendere quanto di arcaicamente religioso e predicatorio ci sia nelle sue gogne: non sono le sue storie ad essere emblematiche, ma è lui l’imbonitore capace di trasformarle in parabole, monumentali occasioni di riflessione collettiva. Da vicende miserabili e penosamente comuni ha saputo trarre alcuni memorabili e spettacolari autodafé nazionali. Cosa sono, le sue ricorrenti emersioni nel dibattito pubblico, se non teatri itineranti dove lui riesce sempre a far succedere qualcosa di esemplare, didattico, inquisitorio? L’alter ego letterario di Corona non è il segaligno Mefistofele di Goethe o di Bulgakov, né il Frank Mackey di Magnolia: è piuttosto il Cipolla di Mario e il mago di Thomas Mann (che, non a caso, è ambientato in Italia, a Forte dei Marmi). Fabrizio Corona è il Savonarola che possiamo permetterci, e forse anche quello che ci meritiamo.

Il rito sacrificale
Fin dall’inizio del suo successo, Fabrizio Corona ha inscenato meglio di chiunque altro il più antico di tutti i riti: quello sacrificale. Lo spettacolo che allestisce è sempre una variazione sullo stesso meccanismo: il processo della comunità contro i suoi colpevoli. Per questo, dicevo, la sua vicenda pubblica è sempre stata legata alla teatralizzazione di quello che si svolge nell’ombra delle procure. Il suo agone si svolge sempre nei pressi del tribunale, un po’ come le tragedie greche si svolgevano davanti al palazzo reale. Quando non ha a che fare con la giustizia — direttamente o indirettamente —Corona non esiste. Sa bene — meglio di moltissimi teatranti—la parentela che corre fra il rito giudiziario e quello teatrale. Così, ogni volta che gliene si presenta l’occasione, Corona trasforma il grigio ingranaggio kafkiano della giustizia italiana in un un’indiavolata performance teatrale — volgare, morbosa, voyeuristica, d’accordo, ma non per questo meno catartica. Ogni paese ha la tragedia che merita. Lo si è visto con Vallettopoli, quando venne indagato per estorsione ai danni di diversi vip, già allora quasi tutti calciatori: Gilardino, Adriano, Totti, Trezeguet. La ripresa video delle sue deposizioni in tribunale rimane tuttora uno dei più memorabili momenti teatrali della tv italiana, quando — inimicandosi tutti, ma incapace di sottrarsi al puro piacere del palco — alla giudice che gli chiede se può, per cortesia, smettere di usare la parola “cazzo”, Corona inizia a descrivere la stessa scena sostituendola con la parola “pene”, ripetendola con tale sottolineata insistenza clinica da trasformarla in un mantra più ridicolo e volgare di quanto lo fosse prima. Sta facendo il verso a Thomas Bernhard, e forse neanche lo sa. Sarà stato lì che ha capito che quei teatri così ben imbastiti potevano essere ancora più potenti quando era lui stesso a interpretarli. Con il suo proprio corpo, per dirla alla Pasolini. E allora ecco i tentativi di fuga all’estero, le dirette Instagram, le invettive universali, i soldi nel controsoffitto, le ospitate da Massimo Giletti con gli zigomi gonfi per il botox, la rissa sfiorata con Mughini, la performance alla Hermann Nitsch contro ilTribunale di Sorveglianza di Milano, quando si tagliò le braccia e si spalmò il sangue sulla faccia “per combattere l’ingiustizia”, in quello che sembrava il più triste e grottesco degli epiloghi ed era invece solo l’ennesima maschera del suo corteo, la più shakesperiana di tutte, il fantasma di Banquo che torna insanguinato dalla tomba a ricordare ai vivi le colpe e i pregressi, i sospesi e le pendenze. Si è fatto vittima, attore protagonista e narratore insieme, tutto in uno: un intero ciclo espiativo e mediatico da consumarsi tutto nello stesso individuo.
(Continua su Domani)

 

 

 

 

 

 

(Nella foto Fabrizio Corona)