Pubblicato il 26/06/2023, 15:03 | Scritto da La Redazione

Mario Sechi saluta il Governo e si accasa a Libero

Mario Sechi saluta il Governo e si accasa a Libero
Mario Sechi non era a Parigi, all'Eliseo, martedì scorso. Un elemento di prova, direbbe un investigatore alle prese con il nuovo caso della comunicazione targata Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Come mai il capo ufficio stampa della presidente del Consiglio, giornalista con una grande passione per la geopolitica, non era presente al bilaterale più atteso degli ultimi mesi, l'incontro della riconciliazione tra Meloni ed Emmanuel Macron? Così su La Stampa.

Le porte girevoli di Chigi Sechi lascia dopo tre mesi andrà a dirigere Libero

La Stampa, di Ilario Lombardo, pag. 14

Mario Sechi non era a Parigi, all’Eliseo, martedì scorso. Un elemento di prova, direbbe un investigatore alle prese con il nuovo caso della comunicazione targata Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Come mai il capo ufficio stampa della presidente del Consiglio, giornalista con una grande passione per la geopolitica, non era presente al bilaterale più atteso degli ultimi mesi, l’incontro della riconciliazione tra Meloni ed Emmanuel Macron? Domanda inevasa per ore, finché le voci che si rincorrevano da giorni non si sono trasformate in un’indiscrezione del sito Dagospia. Sechi ha pronte le valigie, dopo poco più di tre mesi a Palazzo Chigi. Nulla di ufficiale, ancora. Ma dovrebbe traslocare alla direzione di Libero, quotidiano che, accanto aIl Giornale e a II Tempo, nel nuovo polo conservatore immaginato dall’editore Antonio Angelucci — proprietario di cliniche e anche deputato iper-assenteista della Lega — rappresenterebbe l’ala meloniana. Storia tutta italiana questa, dove il confine tra interessi privati, politica, e giornalismo sfuma facilmente verso il grigio. E dove diventa normale che da collaboratore della premier si finisca a fare il direttore. Partiamo dalla fine. Dai messaggi a cui Sechi non ha risposto, ieri. Lo cercavamo per una conferma. Da buon sardo ha taciuto. E dunque ci siamo rivolti ad altre fonti di Palazzo Chigi, che ci hanno ricostruito il livore che si respirava in quelle stanze, la diffidenza verso Sechi della cerchia più ristretta che Meloni si è portata dietro quando è stata nominata presidente del Consiglio, una specie di “clan Tolkien“, dal nome dell’autore de Il Signore degli Anelli amato da questi fedelissimi e fedelissime.

Tutte cose note ai giornalisti al seguito, sia chiaro. Bastava essere presenti a uno dei tanti viaggi internazionali della premier per capire quanto non ci sia mai stato feeling tra Sechi e le due donne che fanno da bodyguard, da sempre, a Meloni: l’eterna segretaria Patrizia Scurti, oggi capo della segreteria particolare, e la storica portavoce Giovanna Ianniello, oggi coordinatrice della comunicazione istituzionale. Entrambe siedono nell’ufficio del presidente. Il gabinetto ristretto, per intendersi. Sechi ne è rimasto fuori. Entrambe partecipano ai bilaterali con i leader — per dire, erano sedute al tavolo con il presidente cinese Xi Jinping e con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky— Sechi no. Parrebbe una nota a margine di faccende molto più grandi che impegnano il governo della destra. Invece racconta di una gestione a dir poco difficoltosa della comunicazione ad alto livello, della trasparenza che manca sui dossier, del clima di sospetto a tratti paranoico con cui lo staff spesso si relaziona ai giornalisti e ai media. Tutti aspetti che ricordano l’esperienza di Donald Trump alla Casa Bianca. Il tycoon diventato il primo presidente populista della nuova era americana bruciò innumerevoli portavoce e capi della comunicazione. In piccolo, è successo qualcosa di simile a Palazzo Chigi. Meloni ha ricevuto diversi no e ha passato mesi a cercare un portavoce. Alla fine è arrivato Sechi, dalla direzione dell’agenzia di stampaAgi, lo scorso fine febbraio. Da quanto trapela, l’accordo era prima di provare una convivenza di tre mesi. Se fosse andata bene, si sarebbe andati avanti. Su per giù la scadenza è stata questa. E, a quanto pare, non è andata così bene. Chi conosce il “clan Tolkien” da anni, dagli anni della militanza postfascista che li ha compattati dietro al mito di Giorgio Almirante e di Frodo, sapeva sin dall’inizio che sarebbe finita così.
(Continua su La Stampa)

 

 

 

 

 

(Nella foto )