Pubblicato il 15/05/2023, 19:01 | Scritto da La Redazione
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Federica Pellegrini racconta la lotta alla bulimia nella sua autobiografia “Oro”

Federica Pellegrini racconta la lotta alla bulimia nella sua autobiografia “Oro”
La Divina anticipa sulle pagine di Repubblica un estratto della sua biografica, intitolata "Oro", in uscita domani. E, dietro ai successi Olimpionici e Mondiali, racconta della lotta contro la bulimia che l'ha afflitta da adolescente.

Federica Pellegrini “La bulimia e la lotta contro il mio corpo”

La Repubblica, di Federica Pellegrini, pag. 21

Ai Mondiali di Montréal del luglio 2005 mi ero presentata con il miglior tempo stagionale. Ad aprile avevo fatto 1’57″92 nei 200, dunque ero la favorita. Sono i Mondiali nei quali Filippo Magnini vince l’oro nei 100 stile libero e diventa una star, quelli in cui Laure Manaudou vince i 400. Il fenomeno era però Michael Phelps: cinque ori, tra cui i 200 stile libero e i 200 misti, e l’argento nei 100 farfalla. Avevo investito tutto su quei Mondiali, dopo un anno schifoso. Volevo l’oro. Solo l’oro mi avrebbe ripagato della fatica, del dolore, dell’angoscia e della solitudine. Sarebbe stato il mio risarcimento. Purtroppo però ho un ritardo nelle mestruazioni pur prendendo la pillola, ero un casino in quel periodo, e il mio corpo non risponde, è fiacco, non esplode. Faccio 1’58″73: argento. Vince la francese Solenne Figuès con 1’58″60. A A 17anni mi vedevo un mostro: lo specchio riflette le ossessioni e la tua insicurezza Placcata per un’intervista in televisione scoppio in un pianto a dirotto. Tanto ero stata felice per l’argento olimpico di Atene, quanto questo argento mondiale mi brucia. Al giornalista dico: «Questa medaglia è da buttare. Non ho ancora capito perché la finale mi sia venuta così male. Non trovo risposte a un crono così deludente». Mia mamma, che mi guarda alla televisione, si spaventa. Mi conosce, indovina come sto dal modo in cui le rispondo al telefono, già se la chiamo mamma e non mami si preoccupa. Mi ha detto che ero irriconoscibile, gonfia come non mi aveva mai vista. Tutti mi attaccano perché ho pianto per un argento mondiale invece di essere felice. Nessuno capisce. Ma come avrebbero potuto se neppure io capivo? Mi dibattevo come un pesce preso all’amo, avrei voluto soltanto scomparire. Invece ero lì, davanti agli occhi di tutti, incapace di gestire lo stress. Avevo diciassette anni, che è già abbastanza un casino di per sé anche se non devi nuotare in una gara mondiale. Non provavo alcuna indulgenza nei miei confronti. Ero rigida, non vedevo via d’uscita. Nelle foto ho gli occhi completamente spenti. E sono gonfia, brufolosa, i capelli lunghi che non ho più avuto e neanche mi piacevano. Da qualche mese, poco dopo essermi trasferita a Milano, avevo cominciato a ingozzarmi di cibo. Ero capace di far fuori chili di gelato seguiti da svariate tazze di cereali una dietro l’altra. Una volta mia mamma era venuta a trovarmi e se n’era accorta. Le avevo detto ho fame, facciamo merenda? E avevo divorato due buste di prosciutto crudo e tre pacchetti di cracker. Lei mi aveva guardato perplessa. La sera, dopo aver mangiato tutto quello che potevo durante il giorno, vomitavo. Lo facevo sistematicamente, ogni sera prima di andare a dormire, quando il ricordo di tutto il cibo ingurgitato aumentava il senso di colpa. Vomitare era un po’ come ripulirsi la coscienza e anche la mia maniera di metabolizzare il dolore. Si chiama bulimia ma io non lo sapevo. La bulimia per me non era il problema, era la soluzione.

Il mio modo di dimagrire senza sacrifici mangiando tutto quello che volevo. Certo, una parte di me intuiva che era un segnale, che stavo cercando di toccare il fondo perché mi fosse evidente che avevo preso una direzione sbagliata. Ma più mi vedevo grassa e più mangiavo. Tanto ormai ero lontanissima da come avrei voluto essere. L’unica cosa che potevo fare era andare avanti così. Alla fine qualcuno se ne sarebbe accorto e mi avrebbe fermato, pensava una parte di me. E nel frattempo continuavo a mangiare. Un giorno vengo convocata da Gérard Rancinan per SportWeek. Avrebbe fotografato alcuni atleti fuori dal loro ambiente naturale. Li avrebbe trasformati in animali, maschere, modelli. Per me aveva immaginato una maschera veneziana. Mi truccano, con la biacca sul viso e la bocca a cuore. Mi infilano una parrucca bionda, i gioielli, i tacchi. Ci mettiamo due giorni per via di questi trucchi teatrali che erano complicati e lunghi da realizzare. Indosso sempre il costume da gara o il bikini. La seduta fotografica è estenuante e io mi trovo in costante imbarazzo. L’unico pensiero che ho in quei due lunghissimi giorni è che voglio scappare. Ora, subito, con questo maledetto trucco da damina in faccia. Scappare veloce senza voltarmi indietro e non farmi vedere mai più. Invece resto e mi faccio fotografare, faccio tutto quello che mi chiedono. Perché io sono seria, io sono un soldato. Il giorno della presentazione ho il panico. So già che non mi piacerà. Per passare inosservata non mi trucco, mi metto una camicia e un paio di jeans sformati, mi lego i capelli con l’elastico per mortificarmi. Entro nella sala ed è peggio di quanto avessi immaginato. Appese alle pareti ci sono le foto. Enormi. Gigantografie. Un incubo. Rimango pietrificata, vorrei coprirle in qualche modo, soprattutto quelle con il bikini in cui non vedo altro che i rotoli di grasso sulla pancia. Le pose languide, la seduzione, vorrei solo sprofondare, sparire, morire.
(Continua su La Repubblica)

 

 

 

 

 

(Nella foto Federica Pellegrini)