Pubblicato il 09/02/2022, 17:05 | Scritto da La Redazione
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Nicola Savino: Ho sempre avuto un problema con il successo, mi dicevo “Ma non sarà troppo?”

Nicola Savino: Ho sempre avuto un problema con il successo, mi dicevo “Ma non sarà troppo?”
La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: il conduttore e speaker di Deejay racconta della sua famiglia e dei primi anni nella radio fondata da Claudio Cecchetto.

Nicola Savino: «Per andare a vivere in centro ho fatto sei armi di analisi. La radio? Non smetterò mai»

Corriere della sera, pagina 21, di Chiara Maffioletti.

Sembra l’amico che tutti vorrebbero avere. Quello simpatico, sorridente e gentile, divertente, ma mai gradasso. «Ecco, mi viene in mente l’espressione di mia moglie quando incontro qualcuno per strada che mi dice cose come queste  – commenta Nicola Savino -. Di solito mentre la gente parla c’è lei che fa: “Uhhhhh…”».

In realtà, spiega: «Non sono una persona con cui è facile convivere. Sono piuttosto permaloso e ansioso… dormo anche poco e male, di base in due tempi: solitamente qualche ora, poi mi sveglio, magari leggo il giornale in piena notte e alla fine mi riaddormento». Il pieno prende forma grazie al vuoto e, nel caso di Savino, il vuoto si riassume in una parola: papà. «La sua assenza è il mio problema».

Come mai parla di assenza?
«Lui lavorava spesso all’estero, in Medio Oriente, per l’Eni. Quando tornava dai suoi lunghi viaggi mi portava delle radio, che io poi smontavo, forse nella speranza di trovarci dentro lui. Da quando sono nato ai miei 14 anni non c’è stato praticamente mai».
E poi?
«Ha avuto una depressione fortissima. Si è ammalato proprio quando sono nato io, ma poi è peggiorata. Non è semplice per un figlio crescere con un genitore gravemente depresso. Eppure posso dire con certezza che nonostante la malattia non ha mai fatto mancare a me e alle mie sorelle l’amore».
Quando ha realizzato che suo padre stava così male?
«Da piccolo non avevo gli strumenti per capire cosa fosse quello che allora chiamavano “l’esaurimento nervoso”. Tu vuoi che tuo padre giochi con te a pallone, ti porti a vedere la partita… vuoi insomma che sia un padre, ma questo non era possibile. Lo facevano i miei zii, forse provando anche un pizzico di compassione per quel bambino piuttosto solo, visto che le mie sorelle erano più grandi. Crescendo, mi è capitato poi di vedere mio papà in stato confusionale… momenti rari, per fortuna, ma sono successi. Cerco di non pensarci sempre perché mi do fastidio da solo e l’analisi prova a lenire il problema, ma quando ti manca qualcosa di così importante da piccolo, superarlo non è semplice».

Ci è riuscito?
«Negli ultimi 15 anni della sua vita abbiamo recuperato. Con i primi guadagni di Colorado (la trasmissione che conduceva su Italia1, ndr) gli ho comprato una piccola casetta vicino alla mia: l’ho seguito, accudito, stava bene. Per tutto quel tempo siamo stati molto vicini. Quattro mesi prima che morisse, nel 2014, c’è stata anche questa scena madre, da film, in cui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non sono stato un buon padre”. Gli ho risposto che era stato fantastico e l’ho abbracciato a mia volta… ed è davvero stato così. Lui amava me, io amavo lui. Lui ha avuto dei problemi».
E sua mamma?
«Era mamma ed era papà. Lavorava anche lei però doveva badare a tre figli. Adesso capisco tutta la fatica e ho grande stima e ammirazione per i miei. Mi hanno trasmesso una cultura profonda per il lavoro, un grande rispetto. Ancora oggi mi ci rivedo e mi piace anche».
Lei è mancata quando la sua carriera televisiva stava esplodendo.
«È successo poco prima del mio debutto a Quelli che il calcio, che era sicuramente la cosa professionalmente più importante che avessi fatto fino a quel momento. L’ho vissuta con addosso il lutto più tragico, ma non ne parlavo con nessuno allora. Ero dentro un tunnel e non lo sapevo. Per tutti i primi mesi ero distrutto, come se mi avessero tolto la pelle dal corpo, ma dovevo spingere, andare avanti. I lutti sono difficilissimi da mettere nei cassetti: sono come un cerchio di fuoco attraverso cui tu passi. In quel periodo mi fu molto di conforto anche la religione, che adesso pratico meno. Ero in mezzo al mare e mi sono aggrappato anche a quella cosa».

Cultura del lavoro. Non a caso, lei ha sempre lavorato: in ruoli differenti, su media differenti…
«Ho fatto tutta la filiera, sì. Un passo alla volta, forse con un po’ troppa umiltà. E torno alla mia famiglia: eravamo borghesi, si può dire, eppure non vivevamo a Milano ma a San Donato. Avevamo una casa al mare con un giardinetto, ma piccolo e non a Forte dei Marmi, ma a Lido di Camaiore. Insomma, il titolo di tutto era: “Ma non sarà troppo?”. Il che ti consegna un senso di colpa perenne… lo stesso per cui penso, a volte, di aver buttato via molto tempo, lavorativamente parlando, tra i miei venti e i trent’anni. Ma il risultato di cinque-sei anni di analista è che ora, almeno, vivo in centro».
Se dovesse invece descrivere i suoi vent’anni?
«Sono stati bellissimi. Ripenso a un gruppo di amici, che era quello formato da Claudio Cecchetto, tutti impegnati a far bene un mestiere, ancora una volta. La popolarità era quasi un effetto collaterale. Per tutti le star erano quelle sui giornali, non noi. Io poi, avevo il cartellino, facevo la regia. Avevo scritto il mio curriculum per Radio Deejay con la macchina da scrivere. In quegli anni poi, per la prima volta mi relazionavo seriamente e a lungo con delle figure maschili».
(Continua su Corriere della sera)

 

(Nella foto Nicola Savino)