Pubblicato il 11/10/2021, 09:17 | Scritto da La Redazione

Io, Giacomo, prima di Aldo e Giovanni

Io, Giacomo, prima di Aldo e Giovanni
La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: 11 anni all'ospedale di Legnano (entrò nel 1974 da ausiliario e uscì nel 1985 da caposala), che ora racconta nel libro in uscita “Turno di notte”. La nascita del trio e l’invenzione dei Bulgari ispirata da un viaggio a Zanzibar. Le performance, teatri al cimitero… Giacomo Poretti si racconta in una bellissima intervista.

Giacomo Poretti: «Un bullo mi perseguitava, gli lanciai addosso un banco. Che risate la gag dei bulgari»

Corriere della sera, pagina 27, di Elvira Serra.

Giacomino Poretti arriva sorridente e trafelato, ordina un caffè, dice di star bene, sempre bene, nonostante sia una fase della vita incasinata: sta ristrutturando casa, che notoriamente – chiarisce – con il lutto e il cambio del lavoro è una delle tre maggiori fonti di stress per l’essere umano; sta ultimando il cartellone per il Teatro Oscar, assieme a Luca Doninelli e Gabriele Allevi; e si sta occupando del nuovo libro, Turno di notte, terza fatica letteraria dopo Alto come un vaso di gerani e Al Paradiso è meglio credere, tutti per Mondadori. Confessa: «A questo tengo più che agli altri. Del primo non mi sembrava vero mi dessero la possibilità di scriverlo. Il secondo era una storia un po’ distopica, credo l’abbiano apprezzata in due o tre. Questo è stato anche doloroso scriverlo».

Scelga lei come qualificarsi: marito, figlio, padre, attore, comico…
«Sono molto legato alla famiglia, per me è centrale, è in cima a tutte le cose. Ma sulla lapide mi piacerebbe ci fosse “scrittore”. E un po’ esagerato, mi rendo conto. Però, se me lo si chiede prima, allora non avrei dubbi: o scrittore o umorista».
In Turno di notte racconta i suoi 11 anni all’ospedale di Legnano: entrò nel 1974 da ausiliario e uscì nel 1985 da caposala.
«I ricordi più belli li ho in chirurgia plastica e traumatologia-ortopedia. C’era una tale carenza di infermieri che ti impiegavano subito a fare tutto, anche se non eri diplomato. Ma il reparto che mi ha segnato di più è stato medicina, con i pazienti di oncologia».
La lezione più grande imparata in corsia?
«L’umiltà. Credo valga anche per i medici. Nel mio caso, sono passato per prove di umiliazione mica male: l’infermiere deve occuparsi del corpo del malato, un corpo sporco, che suppura, che maleodora. Il tuo primo compito è pulirlo, e non è sempre piacevole. Certo, è più umiliante per l’ammalato».
E i medici come imparano l’umiltà?
«Capendo che non sono onnipotenti. Quando devi dire che un familiare ha pochi mesi di vita subisci una sconfitta: con tutto quello che hai studiato, non sai come salvarlo».

È mai stato ricoverato, dopo?
«Sì e ho anche avuto bisogno del pappagallo. In quel caso mi sono chiesto: “Ma sono stato attento e premuroso con i pazienti quando me lo chiedevano?”. Perché prima glielo porti via e prima lo togli dall’imbarazzo».
È stato battezzato Giacomino. Di chi è la colpa?
«Di mia madre, che voleva darmi il nome di suo padre, morto quando lei e il gemello avevano otto mesi. Però, per differenziarmi da lui, mi chiamò Giacomino. Da ragazzino mi faceva schifo. Ma perché, dico io? Sembrava il mio destino fosse già scritto. In casa mi chiamavano Mino. Poi a scuola cominciarono con Jack».
Mai stato bullizzato?
«Un pochino, per l’altezza. Una volta ho reagito in maniera scomposta. Frequentavo le serali, perché di mattina lavoravo in fabbrica: avevo cominciato dopo la licenza media e tre mesi ai geometri, i miei genitori mi avevano fatto capire che era meglio se lavoravo. Al professionale c’era uno grande che mi prendeva sempre per i fondelli: è arrivato il tappetto, il piccoletto… Quella volta non ci vidi più. Lui era seduto al suo banco, io lo raggiunsi e gli scaraventai contro la scrivania. Cadde all’indietro e battè forte la testa: per cinque secondi non si mosse. Poi si riprese, non mi insultò più. Ho ancora paura se ci ripenso. A mia discolpa posso citare Papa Francesco quando ammise: è vero che non si può reagire violentemente, ma se un mio amico dice una parolaccia contro la mia mamma lo aspetta un pugno!».
Cos’ha preso dal suoi genitori?
«Mio padre Albino era metalmeccanico. Da lui spero di aver preso la sensibilità: era molto dolce. Mia madre faceva l’operaia tessile. Lei è un carrarmato. Un aneddoto emblematico della sua infanzia è di quando mia nonna svegliò nel cuore della notte lei e il gemello, che avevano 8 anni, per andare in campagna a tagliare un ciocco di legno: era inverno e c’era la neve. Da lei ho preso l’indomabilità: mia moglie, invece, dice che sono cocciuto».
E suo figlio Emanuele, quindicenne, cosa ha preso da lei?
«La profonda sensibilità. Mentre l’ironia la deve alla nonna».
Che padre pensa di essere?
«Affettuoso e ansioso. Quando Emanuele è nato è stato il giorno più bello della mia vita. Mia moglie, Daniela, doveva fare il cesareo, fissato per le 9 del mattino. Lei si svegliò alle 8.10, tranquilla, anche perché stava benissimo con Emanuele in pancia. Io ero sveglio dalle 6, sbarbato e vestito di tutto punto!».
Il libro lo ha dedicato a Emanuele e a Daniela, «medico delle anime».
«Lei è psicoterapeuta, una delle sue passioni è il teatro, lo usa anche nel lavoro. Aveva fatto la scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano per la regia ed ebbe una piccola parte nel film di Giuseppe Piccioni Fuori dal mondo, prodotto da Lionello Ceni dell’Anteo, che mi invitò a vederlo. Io gli feci capire che mi sarei annoiato tantissimo e invece conobbi Daniela: era il 1999. Ci siamo sposati nel 2002».

(…)

E arriviamo all’incontro con Aldo Baglio e Giovanni Storti. Cosa l’ha divertita di più?
«Beh, quando facevamo i bulgari mi divertivo come un matto! All’inizio si chiamavano gli albanesi. Poi prima di una puntata di Mai dire gol successe una tragedia nel mare e la Gialappa’s suggerì di cambiare nome per rispetto».
Com’erano nati i personaggi?
«Da una vacanza-lavoro a Zanzibar, dove io non andai perché malato. Aldo e Giovanni tornarono pazzi per questi acrobati locali scarsissimi. Decisero di farne la parodia. Tenga conto che loro due sono acrobati veri, hanno frequentato la Scuola di mimo dell’Arsenale».
Non è che dessero questa impressione…
«Sembrare scarsi raddoppia la bravura!».
Censure?
«Sì. Ai tempi di Cielito lindo, era il 1993, quando facevamo i vecchietti, dedicammo un “sai che?” a Sandra Milo, che aveva già 60 anni. La battuta era: “Sai che Sandra Milo è incinta? E sai cosa ha detto il figlio appena è nato? Ciao nonna!”. Una cosa innocente, giocata sul fatto che con la provetta si poteva fare un figlio a qualsiasi età. Ci avvertirono: se lo dite chiudiamo il programma. Cedemmo».
Sensibilità offese?
«Ne La banda dei Babbi Natale a un certo punto Giovanni, che interpreta un veterinario, dà un calcio a un gatto bianco. Era chiaramente un peluche. Ma gli animalisti protestarono. Per la povera Mara Maionchi, cui ne facemmo di ogni colore, non si fece avanti nessuna associazione di suocere. Pure per uno spot ci fecero problemi: volevamo mettere un cane, finto, dentro la lavatrice. Ci finii io».
Le dispiace essere associato sempre al trio?
«No, affatto. Devo a loro la mia carriera artistica. Siamo al punto che quando esco con mia moglie qualcuno commenta: quella è la moglie di Aldo Giovanni e Giacomo!».

(Continua su Corriere della sera)

 

(Nella foto Giacomo Poretti)