Pubblicato il 24/08/2017, 11:35 | Scritto da La Redazione

Spike Lee: Farò di Lola Darling una serie tv per Netflix

Spike Lee: La lotta tra i sessi nella mia America sempre più divisa

Rassegna Stampa: La Repubblica, pagina 36, di Silvia Bizio.

La storia attingeva alle esperienze del regista da giovane: “Al tempo avevo molti amici maschi che si davano un sacco di arie su quante donne si rimorchiavano… Nel film, come nella serie, l’ho rovesciata e raccontata dal punto di vista della donna”. Il regista riprende il personaggio del suo film di debutto, “Lola Darling”, per raccontare gli Usa di oggi in una serie televisiva per Netflix.

Più di trent’anni fa, nell’agosto del 1986, il regista Spike Lee, 60 anni compiuti da poco, esplodeva sulla scena del cinema americano indipendente con il suo primo film, She’s gotta have it (in Italia uscì col titolo Lola Darling). La storia di una giovane donna, artista e spirito libero, che sbarca il lunario a Brooklyn barcamenandosi tra gli amici, il lavoro e i suoi tre amanti (uno dei quali interpretato da Lee ). Trent’ anni dopo il film diventa una serie tv per Netflix (in streaming dal 23 novembre) diretta da Spike Lee, con DeWanda Wise nel ruolo della protagonista Nola.

La storia attingeva alle esperienze del giovane Spike Lee. «Al tempo avevo molti amici maschi che si davano un sacco di arie su quante donne — loro dicevano “bitch”, io no — si rimorchiavano», dice l’autore e regista al telefono dalla sua New York, tra un “buongiorno” e un “grazie” in italiano. «Se poi una di loro stava con uno di quegli amici davano di matto, la gelosia esplodeva. Nel film, come nella serie, l’ho rovesciata e raccontata dal punto di vista della donna. Mi venne istintivo rendere la donna protagonista e svergognare il maschio». E continua: «Dentro c’è il mio amore per Kurosawa. Cito Rashomon nella storia, dove i tre uomini si rivolgono al pubblico, come in un confessionale, dando il loro punto di vista su Nola. E come Kurosawa voglio che sia il pubblico a decidere chi è Nola, chi Jamie, chi Mars».

È vero che l’idea della serie tv è venuta a sua moglie?

«Sì, è stata lei (l’avvocato Tonya Lewis, ndr) a suggerirmi di farne una serie, io non ci avevo pensato. Ho subito pensato che fosse un’idea geniale».

È stato facile trovare un canale per trasmetterla?

«Per niente. Hanno rifiutato tutti finché non ho trovato Netflix, che ha immediatamente accettato».

Netflix sta annoverando tutti i migliori autori.

«È un luogo perfetto per gli artisti, una sorta di atelier per cineasti. Netflix riconosce la qualità e la libertà dei creativi, e lascia fare. Spero che il pubblico sarà grande abbastanza per invogliare Netflix a farmi fare una seconda stagione, e magari una terza, perché di idee sul rapporto tra maschi e femmine ne ho tante».

Il film è un cult del cinema indipendente. Che rappresenta per lei?

«A dire la verità non è uno dei miei film che amo rivedere. Era il primo e ci vedo tanti difetti, tipico di un giovane regista, ed è doloroso per me guardarlo. Non l’avrei nemmeno rivisto se non fosse stato perla serie!».

Eppure senza quel film…

«…Non saremmo qui a fare quest’intervista, non esisterebbe Mars Blackmon (il suo personaggio e alter ego di varie opere, ndr ) né il mio rapporto trentennale con Michael Jordan e gli spot per la Nike».

Come è cambiata Brooklyn?

«Il processo di imbellimento — noi diciamo gentrificazione — si è esteso a tutta New York, Brooklyn compresa. E anche a tutto il mondo occidentale. Ci sono quartieri, i loro abitanti e la loro cultura invasi da giovani ricchi e ignoranti che non rispettano cultura e tradizioni. Arrivano con la sindrome di Cristoforo Colombo, si impossessano della zona, non gliene frega niente di chi c’è stato prima. Questo processo è al centro della trama della serie ancora più che nel film».

Parlando di New York, lei si sta battendo perché i newyorchesi votino per il suo “Crooklyn” come “il” film da proiettare nell’ambito della serata One Film, One New York, il 13 settembre. Un commento?

«È un concorso, e il film che raccoglierà più voti verrà mostrato in vari luoghi di New York. Non ne sapevo niente fino a quando hanno annunciato la lista dei film in lizza pensavo che magari avrebbero scelto Fai la cosa giusta fra i miei film, o magari Woody Allen. Invece è stato candidato Crooklyn, insieme a Martin Scorsese. Lo capisco: Fai la cosa giusta è classificato inadatto per minori non accompagnati, e ci sarebbero troppi ragazzini in giro».

Perché le è caro “Crooklyn”?

«È semi-autobiografico sulla mia famiglia negli anni 70, l’avevo scritto con mia sorella Joy. Mia madre è morta da più di 40 anni, a 41 anni. L’ho rivisto nel giorno della mamma, quest’anno, e confesso che ho pianto».

Com’è la vita a New York oggi, per lei?

«La vita in America oggi è una follia! Il presidente degli Stati Uniti — non è il mio presidente — è “loco”, pazzo, e spero che lo costringano alle dimissioni quanto prima. Per anni l’America è stata vista come faro della democrazia nel mondo, il posto nel mondo dove tutti volevano andare, ma da quando c’è questo tipo alla Casa Bianca il mondo ride di noi. Tutti, non solo in America, si chiedono ancora come possa essere diventato presidente».

Che pensa di Charlottesville?

«Non mi faccia cominciare! La sua riluttanza a condannare il Ku Klux Klan è stata incredibile. Il mondo ascolta e risponde con disprezzo, tranne la Russia e il suo amico Putin. Non è una coincidenza. Un giorno si scoprirà il rapporto fra Putin e Trump, e il mondo saprà la verità. E io lo aspetto al varco».

Cosa pensa della rimozione delle statue dei Confederati?

«Le devono abbattere tutte! Mi permetta di farle una domanda ci sono ancora statue di Mussolini in Italia? O di Hitler in Germania? No! Come americani, come gente di colore, noi vediamo la bandiera confederata di battaglia come gli ebrei vedono la svastica. È la stessa identica cosa. Quelle statue raffigurano niente più che schiavisti e rapisti. Diciamo la verità, i nostri cosiddetti “padri fondatori”, George Washington e Thomas Jefferson, erano proprietari di schiavi. Ma queste cose nelle scuole non le insegnano. Gli Stati Uniti sono fondati sul genocidio degli indigeni americani e sulla schiavitù».

Lei ha diretto un film in Italia, “Miracolo a Sant’Anna”.

«Sento un grande amore per l’Italia, che mi appoggia da anni! Per non parlare di uno dei miei maestri, Federico Fellini. In ufficio ho tre poster dei suoi film firmati da lui, e ho anche un poster del mio Malcolm X che Fellini ha firmato scrivendo Dovevi farlo lungo quattro ore!”. Parlando d’Italia, mi fa un favore? Fa sapere al ragazzino di Miracolo a Sant’Anna, Matteo Sciabordi, che Spike lo saluta?».

 

(Nella foto Spike Lee)