Pubblicato il 18/10/2016, 19:33 | Scritto da Gabriele Gambini

Marco Berry: mi innamoro delle storie che racconto e sogno di portare la magia in tv

Marco Berry: “Le Iene di oggi sono un programma molto diverso rispetto ai miei tempi”

Marco Berry il mago. Berry de Le Iene. Berry di Invisibili. Berry di Mistero. Berry taxista e conduttore di un quiz on the road. Quale di questi Berry è più Berry degli altri Berry? «Nasco come prestigiatore», dice. «Quando avevo 8 anni, mia mamma mi portò a fare la comparsa in una trasmissione di Silvan: decisi che sarebbe stato bello sognare di diventare come lui». Poi è arrivata la tv. Da protagonista. Le iene («Un tempo una piccola realtà a conduzione familiare, oggi una grossa azienda molto diversa rispetto agli esordi»). E tanti titoli accomunati da un fil rouge: «La voglia di raccontare le persone mettendomi a disposizione delle loro storie». Fino all’attuale Hello goodbye (Rete 4, da lunedì 17 ottobre alle 15.30, prodotto da DueB Produzioni). Adattamento italiano di un format olandese prodotto da Blazhoffski, il programma è ambientato nel non-luogo per eccellenza: l’aeroporto Malpensa di Milano. Qui, con i ragazzi della sua squadra, Berry va a caccia dei vissuti emozionali dei viaggiatori in partenza e in arrivo. Cercando di capire chi sono. Perché partono o perché arrivano. Selezionando, nel mare dell’ordinarietà standard, storie pazzesche, «Tutte vere, mai costruite», dalla forza affabulatoria dirompente. Proprio come un esperimento di magia.

La nuova stagione televisiva ha segnato una novità nei palinsesti. Quella del karaoke all’interno di un’auto, in un percorso itinerante. Il rimando al suo Cash Taxi, che partiva da un presupposto simile, è immediato.

Con Cash Taxi mi ero divertito da morire. All’inizio non lo volevo condurre. Mi dissero dalla produzione: “Ti andrebbe di presentare un quiz?”. Risposi che non avevo certo la faccia di Daniele Piombi. Poi feci il provino: fu amore a prima vista. Prima di registrare le puntate, trascorsi tre giorni portando in giro i miei amici in macchina e facendo loro le domande che avrei fatto ai concorrenti. Su LA7, Cash Taxi faceva numeri soddisfacenti prima del tg, era fresco e dinamico. Non so perché abbiano deciso di chiuderlo.

Si adattava bene al suo spirito di narratore. In fondo, lei in tv ha sempre fatto questo: cercare storie da un punto di vista laterale.

Con la gente mi diverto. Cerco l’empatia nell’immediato, anche a telecamere spente. Sono curioso nei confronti delle cose. Se mi appassiono a una storia, mi metto a disposizione di chi la racconta. Senza aggiungere orpelli. In fondo, io lavoro con l’elettrodomestico meno importante della casa (ride, ndr).

La tv è davvero l’elettrodomestico meno importante della casa?

Di sicuro meno importante del frigo o della lavastoviglie, senza i quali non si potrebbe vivere. La tv può anche stare spenta. Se parti con questo concetto, puoi fare il mio mestiere rimanendo coi piedi per terra. Anche se il telecomando, lo riconosco, scandisce i nostri ritmi di vita: tra una pausa pubblicitaria e l’altra, siamo abituati a cambiare canale alla ricerca di qualcos’altro. Sembra la metafora delle relazioni interpersonali: alla prima litigata, c’è chi tende a cercare un partner diverso.

Come si fa il suo mestiere rimanendo coi piedi per terra?

Prima di condurre un programma, mi pongo sempre qualche domanda: sono in grado di farlo? È un programma onesto? Mi vergognerò alla fine delle puntate?

Le è sempre andata bene?

Prediligo programmi efficaci, incisivi e dalla durata non eccessiva. Nella mia vita ho sbagliato forse una o due volte in tutto. Ma non ti dico quando.

Con Mistero aveva sbagliato? Un prestigiatore alle prese con racconti vicini al paranormale potrebbe suonare stridente.

Al contrario. Mistero è stata un’esperienza bellissima. Formativa. Ricordo la puntata in cui raccontammo la scomparsa del fisico Ettore Majorana. Mi lessi sei libri sull’argomento. Diventando davvero un piccolo aspirante fisico.

Ora c’è Hello Goodbye. Non si raccontano vite di persone scomparse, ma di persone che vanno e vengono in aereo.

Marc Augè dice che l’aeroporto è un non-luogo. Spersonalizza le vite degli individui. Ma solo in apparenza. Noi andiamo a caccia delle vite di ciascun viaggiatore. E rendiamo concreta una citazione di Bukowski: “La gente è lo spettacolo più bello del mondo. E non si paga nemmeno il biglietto per vederlo”.

Vengono raccontati vissuti particolari e toccanti. Come li ricavate?

Stando a Malpensa tutto il giorno. Tre ragazze mi assistono nel cercare i protagonisti potenziali. Vanno dai viaggiatori nelle sale d’aspetto. Chiedono loro chi sono e perché sono lì. Su dieci risposte ordinarie, che scartiamo subito, salta fuori l’inaspettato. Come il viaggiatore che racconta di essere in attesa dell’arrivo della madre ottantacinquenne che non vede da 6 anni. Allora insistiamo perché accettino di mostrare tutto davanti alle telecamere. Il segreto è che siano storie empatiche e incisive per un racconto televisivo. Ne abbiamo girate 120 e selezionate 50-60. In presa diretta, senza scrittura.

È facile convincere i viaggiatori a esporsi davanti alle telecamere?

Dipende. Qualche volta abbiamo dovuto rinunciare. Spesso ce l’abbiamo fatta. Nel momento in cui un viaggiatore accetta, abbiamo pochissimo tempo per riprendere tutto e farci raccontare la sua storia fino alla sua partenza o all’arrivo della persona che attende.

Qualche storia che l’ha colpita più di altre.

Due ragazzi gay si baciano vicino al check-in. Piangendo a dirotto. Uno è italiano, uno è messicano. Il messicano ha il permesso di lavoro scaduto ed è costretto a tornare a casa. Nel momento in cui varca il tornello, la sua storia d’amore potrebbe terminare per sempre.

Un’altra.

Sala d’aspetto. Ragazza africana di venticinque anni attende l’arrivo di un aereo in compagnia di un uomo italiano sessantenne e di un’italiana più o meno coetanea dell’uomo. Vado io a intervistarli. Mi raccontano l’incredibile vicenda del loro rapporto: l’azienda di lui fallisce, e lui se ne va dall’Italia. Decide di aprire un bed and breakfast in una piccola città africana. Nel villaggio propone di dare un passaggio in centro ad una ragazza del posto. Lei risponde: “Devi chiedere il permesso a mio padre”. Il padre: “Puoi accompagnarla, ma solo se la sposi”. Da qui inizia l’interesse di lui verso la ragazza. Vivono insieme un anno e si sposano davvero. Lei rimane incinta e partorisce un bambino morto. Lui, con la ragazza, torna in Italia per farla sottoporre a esami clinici e capire perché il bambino sia nato morto. Si scopre che la ragazza ha una grave insufficienza renale. Si sottopone alla dialisi, non può tornare in Africa. Lui nel frattempo torna in Africa, lasciando la ragazza in Italia con la sorella (la donna sessantenne che era in aeroporto con lui). Dopo un anno di dialisi, alla ragazza diagnosticano un problema al cuore. La operano a due valvole. L’equipe di medici si affeziona a lei e va in Africa a conoscere i suoi fratelli. Morale: la ragazza era in aeroporto, in attesa della sorella più giovane, che non vedeva da sei anni e che le avrebbe donato un rene.

Da romanzo.

Quando hai davanti un racconto dal potenziale empatico così grande, non devi far altro che lasciarlo dipanare senza ostacoli. A volte mi commuovo, nel sentire certi racconti. Ci sono speranze, passioni, delusioni. Ci sono ragazzi che abbandonano l’Italia perché qui per loro non c’è futuro. Il gate dell’aeroporto contiene tutti gli ingredienti della commedia umana.

Chi atterra sa delle telecamere?

No, ne è all’oscuro. Ma novanta volte su cento, non capisce subito che cosa stia succedendo.

L’aeroporto è luogo di partenze, arrivi e sliding doors. Marco Berry pensa mai alle sue scelte professionali del passato?

Generalmente non mi guardo mai indietro. Credo di aver effettuato sempre scelte ponderate, mai istintive. Non dico subito “sì”. E non guardo al potenziale commerciale di un programma. Mi interessa partecipare a progetti che mi soddisfino per qualità. Altrimenti, posso anche stare fermo. Non ho la smania di apparire.

Però i numeri dell’Auditel li consulterà.

Meno di quanto tu creda. Anzi, quasi mai. Non mi interessa. Sono rimasto soddisfatto anche da programmi risultati penalizzati da scelte di palinsesto.

Per esempio?

Danger. Un programma fatto molto bene. Solo che la prima puntata venne trasmessa con la controprogrammazione, su Canale 5, del film Troy in prima visione tv. Danger fece l’11%. Ottimo. Ma Troy risultò essere il film più visto degli ultimi dieci anni di televisione. Stessa cosa per la seconda puntata: Danger fece il 10%. Ma dall’altra parte c’era il Milan in Champions League (ride, ndr).

Le Iene di oggi sono qualcosa di diverso rispetto a quelle in cui c’era lei?

Sono molto diverse. Anche per questo non ne faccio più parte. Prima era un’azienda a conduzione familiare, diciamo così. Oggi è una grande industria, una S.P.A. Ma al programma sono molto legato.

Mai ricevuto pressioni, in quel periodo?

Mai. Libertà pressoché totale. Forse chi di noi si occupava di politica riceveva pressioni nel periodo delle elezioni, come è normale che accada. Per il resto, non siamo mai stati ostacolati.

Servizi che ricorda con maggior affetto?

Quando andai in Colombia a raccontare il rapimento Betancourt prima che altri se ne occupassero in Italia. L’incontro con le Farc, la possibilità di descrivere la Colombia in tutte le sue sfaccettature. Quando introdussi, anni dopo Nanni Loy, la candid nei nostri servizi. Per presentarmi a un appuntamento con un intermediario di motorini rubati, mi inventai un’agenda con un buco all’interno, nel quale infilammo una microcamera per riprendere tutto. Oppure quando incontrai gli organizzatori di combattimenti clandestini tra cani. Li raggiunsi in mezzo a un bosco nella provincia di Frosinone. Con baffi finti e parrucca. In incognito. Rischiai davvero grosso.

Che cosa le manca, ancora, tra i progetti da concretizzare?

Un programma sui trucchi di magia. Raccontandone la portata di meraviglia che fa sognare i bambini e fa tornare all’infanzia gli adulti.

Gabriele Gambini
(nella foto  Marco Berry)