Pubblicato il 13/06/2016, 19:44 | Scritto da Gabriele Gambini

Favino e Richelmy: in Marco Polo raccontiamo il primo esempio di globalizzazione

Dicono i due attori: “Nei drammi familiari e politici raccontati nella serie, ci sono tanti elementi contemporanei: primo tra tutti, il confronto tra  culture diverse come occidente e oriente”.

Chi scrive, ignora in quale girone ultraterreno si trovi ora l’anima del buon Marco Polo. Di certo, se lassù hanno sottoscritto l’abbonamento Netflix, l’esploratore veneziano avrà accolto con un misto di divertimento e stupore le licenze narrative della serie di John Fusco, che alle vicende de Il Milione si ispira concedendosi qualche virata pop. Una su tutte, l’addestramento di Marco (Lorenzo Richelmy) agli ordini del maestro di arti marziali Cento Occhi. Tra calcioni e pugni volanti, sembra uscito da un tributo ai kung fu movie degli anni ’70. Ma questa è la forza della serie. Partire da una ricostruzione accurata, in cui tutti i crismi della verosimiglianza storica sono rispettati, inserendo una vena supereroica nei protagonisti. Per rendere gli intrighi alla corte di Kublai Khan appetibili alle nuove generazioni.

La seconda stagione (da luglio su Netflix) riparte da dove era terminata la prima. Marco, abbandonato dal padre Niccolò (Pierfrancesco Favino) alla corte del condottiero mongolo in un momento storico di grandi tensioni, sarà spettatore partecipe della fondazione dell’impero cinese della dinastia Yuan. Tra donne misteriose – nel cast, l’ingresso di una guerriera senza nome interpretata da Michelle Yeoh – scene spettacolari girate tra Kazakistan, Malesia,Venezia e Budapest, le nuove, 10 puntate scioglieranno i nodi lasciati in sospeso. «Verrà approfondito l’equilibrio dei rapporti familiari, a cominciare da quello tra Niccolò e Marco», dicono Favino e Richelmy. «Se la prima stagione è servita a presentare lo scenario, stavolta si entra nel vivo, i personaggi acquisiranno maggior spessore e rotondità. Raccontiamo un dramma familiare con molti dettagli e con parallelismi con la realtà odierna».

La base del racconto affonda le radici ne Il Milione. Ma sono concesse alcune licenze narrative pop che rendono la serie spettacolare, per certi versi simile a un grande fumetto con riferimenti storici. Non temete che questi aspetti di entertainment disinneschino la portata verosimile della narrazione?

Favino: Al contrario. Mi metto nei panni di uno spettatore. Che cosa voglio, da una serie tv? Essere intrigato, intrattenuto, divertito, stupito, sorpreso. Non stiamo parlando di un documentario. Il bello di una produzione di questo tipo è il potersi permettere di guardare altrove. Succede con Suburra, con Gomorra, con Romanzo Criminale. Si parte da fatti reali, affidandosi a una documentazione ricca. Ma si indaga anche la “metà possibile”, cioè tutto quello che nei documenti forse non si trova, ma che concorre a costruire un intrattenimento vincente, senza deragliare dalla ricostruzione di quei fatti.

Richelmy: Nella serie c’è un forte richiamo alla spettacolarizzazione visiva, alla precisione dei dettagli si unisce un immaginario che coinvolge lo spettatore. Ci sono molti ingredienti, dentro, tanta carne al fuoco. Ci concediamo qualche licenza, ma sempre partendo da criteri di verosimiglianza. Non dimentichiamo che lo stesso Marco Polo, persino in punto di morte, ha avuto grosse difficoltà a essere creduto dai suoi concittadini quando ha narrato le sue avventure. Mi piace sottolineare come la serie racconti i fatti de Il Milione, ma ne approfondisca anche le alternative plausibili. Le scene di duello con Michelle Yeoh, in particolar modo, mi hanno divertito come poche altre cose al mondo.

Nella seconda stagione si approfondiscono alcuni temi lasciati in sospeso. In particolar modo nel rapporto tra i personaggi.

Favino: Nella prima stagione ci siamo preoccupati di rendere riconoscibili alcune dinamiche della vita nella Cina medievale. È stata una sorta di prologo. Ora si entra nel vivo. Molte situazioni raccontate avranno dei forti parallelismi con la contemporaneità. Si parla del rapporto occidente-oriente, di un grande impero che tenta di inglobare dentro di sé culture apparentemente diversissime tra loro. Uno dei primi esempi di globalizzazione.

Richelmy: Il mio personaggio, Marco, è cresciuto. Ora è un uomo maturo, ha imparato a destreggiarsi all’interno della corte di Kublai Khan. Ne ha guadagnato la fiducia ed è pronto a mettersi in gioco come suo fidato consigliere. Se ci si pensa, l’ambientazione è peculiare e inusuale, ricca di spunti inediti. Non c’è niente di simile a Marco Polo, nel panorama seriale odierno. La sua forza sta nella sua riconoscibilità.

C’è anche il rapporto tra Marco e il padre Niccolò, che lo aveva abbandonato alla corte di Kublai Khan per garantirsi un salvacondotto commerciale sulla via della Seta.

Favino: Il ritorno di Niccolò ha un sapore inatteso. La via della Seta, percorsa per intero, a quell’epoca concedeva poche chance di tornare. Eppure lui ci riesce. E trova un Marco cambiato, con una nuova, solida identità. Il tema del rapporto padre-figlio è trattato smarcandosi dai cliché, con equilibri personali mai scontati.

Richelmy: Marco fa i conti con due figure maschili di riferimento molto importanti. Niccolò da un lato, Kublai Khan dall’altro. Uomini diversissimi tra loro, entrambi dalla forte caratterizzazione. Le dinamiche che si creeranno daranno una dimensione molto bella e particolare dell’idea di padre. Un confronto familiare con molti raffronti contemporanei.

Marco Polo non lesina su scelte narrative ad alto impatto, tra cui anche scene di sesso e di violenza funzionali al racconto. In questa prospettiva, le serie che presentano molti elementi “di genere” si stanno facendo strada.

Favino: La forza di Netflix sta nella sua varietà e nella sua forza produttiva. Lo dico da fruitore. C’è un campo narrativo sterminato, immediatamente fruibile, come mai prima d’ora. Per tutti i gusti e per tutte le inclinazioni. In fondo, però, i drammi alla base di ogni racconto, si rifanno ai grandi archetipi shakespeariani. Penso al rapporto tra Marco e Niccolò Polo. A me fa venire in mente Amleto. Oppure agli intrighi alla corte di Kublai Khan: il raffronto tra l’uomo e l’idea di potere. Le serie tv rispondono al bisogno innato di raccontare e quest’epoca è straordinariamente florida, da questo punto di vista.

Richelmy: Netflix ha gettato le basi per grandi speranze produttive. La prima tra tutte è che possa, con effetto domino, condizionare anche le produzioni locali e generaliste, migliorando la qualità dei prodotti con un ingrediente imprescindibile: il coraggio di osare.

Gabriele Gambini
(nella foto, Pierfrancesco Favino e Lorenzo Richelmy)