Pubblicato il 21/04/2016, 18:35 | Scritto da Gabriele Gambini

Alessandro Banfi: L’informazione funziona se sa raccontare storie

Il coordinatore di “Pomeriggio 5” dice: “Abbiamo rinnovato il meccanismo di racconto e la Rai ci segue sul nostro stesso terreno”.

Celebrato e divisivo, Vladimir Putin aveva inaugurato la stagione de Il Presidente, serie di biopic dedicate ai grandi personaggi della contemporaneità, nella seconda serata di Rete 4, portando in dote un appeal mediatico efficace su un pubblico eterogeneo e attento alla politica nostrana, che dal leader della Federazione Russa è o affascinata o insospettita. Da stasera alle 23.40 si riparte con la regina Elisabetta II – l’occasione sono i suoi 90 anni di età e 64 anni di regno – e poi Obama, Merkel, Assad, Hollande, il mefistofelico leader nordcoreano Kim Jong Un. Il taglio non cambia: attingere da materiale internazionale, con un controcanto di informazioni inedite, per tratteggiare ritratti in bilico tra vita pubblica e malizie private. « Le biopic funzionano perché il pubblico è desideroso di informarsi attraverso il racconto di una storia. In questi casi, parliamo di storie dalla grande portata d’intrattenimento che non lesinano sui dettagli e incidono sull’era in cui viviamo», dice Alessandro Banfi, coordinatore di Pomeriggio 5, assieme a Carlo Goria curatore del programma in onda ogni giovedì in seconda serata sulla rete del Biscione diretta da Sebastiano Lombardi.

Il Presidente ha iniziato con la portata divisiva, densa di strascichi polemici, della figura di Putin, personaggio che gode della stima di alcuni politici nostrani ma che suscita sospetti in altri, a seconda delle appartenenze.

Siamo stati molto soddisfatti del risultato. Lo scopo era raccontare gli aspetti di un personaggio percepito, nel bene o nel male, come leader internazionale con cui anche la nostra politica deve fare i conti. Penso a uomini come Prodi, Berlusconi, Salvini, politici con un’intensa attività diplomatica personale che hanno riconosciuto a Putin un ruolo determinante. Raccontarne la figura, anche sulla base delle scelte personali, era un passaggio doveroso per imbastire un prodotto dal contenuto ricco.

Perché in seconda serata?

Perché, pur ottenendo un ottimo riscontro, si tratta di un prodotto destinato a un pubblico profilato, desideroso di informarsi affrancandosi dalla formula del talk tradizionale, che oggi monopolizza le prime serate a prescindere dalle reti e dai gruppi editoriali.

Elisabetta II desta attenzione anche per il sottobosco di gossip che affolla ogni corte reale che si rispetti. Soprattutto quella inglese, la più importante istituzione monarchica occidentale non percepita come anacronistica.

Ci siamo basati su un documentario BBC, realizzato stando a stretto contatto con la regina nel suo quotidiano. Il punto di partenza è stato il tentativo di raccontare gli aspetti meno noti, a fianco di quelli istituzionali, della donna più famosa del mondo, leader del Commonwealth, guida di un’istituzione anacronistica in apparenza, ma fortemente sentita dal popolo inglese. Una donna che, non scordiamolo, ha 90 anni e sta lì, al suo posto, da 64 anni. Ha attraversato svariate ere storiche con forza e discrezione, senza flessioni di consenso significative.

Il documentario è BBC, voi farete un piccolo controcanto con ulteriori informazioni. Che cosa l’ha colpita, del materiale che vedremo?

Emerge in modo evidente lo stile di Elisabetta nel corso degli anni. Distaccato, lievemente sfumato da un’aura di mistero, pur concedendosi a tutti i meccanismi della comunicazione contemporanea. Una forma di snobismo reale che ha la sua forza nel suo restare pop e alla portata di tutti.

Un esempio di questo?

La scenetta delle Olimpiadi in cui ha improvvisato un siparietto con lo 007 Daniel Craig. Lì c’è tutto il suo spirito, che non toglie niente all’aristocratica britannica custode della vita di corte, ma ne fa intuire la meticolosa attenzione per le forme di comunicazione più contingenti. E poi, la sveglia Buckingam Palace, il dietro le quinte della vita di corte, la scelta dei cuochi reali.

Tante luci e nessuna ombra, nonostante i decenni?

Quando Stephen Frears ha realizzato un film su di lei (The  Queen, ndr) ha fatto ruotare il perno della narrazione sull’unico caso controverso del suo regno: la morte di Lady D. e le vicende conseguenti.  Lì c’è stata l’unica marcia indietro della regina nelle sue scelte. Dapprima aveva negato i funerali di Stato a Diana, poi ha cambiato idea, concedendoli. Mantenendo alto il consenso tra gli inglesi.

Proprio la portata di gossip che ruota attorno alla corona inglese potrebbe essere la leva su cui suscitare interesse presso il grande pubblico. La domanda da porsi è: finito il regno di Elisabetta, chi saprà ereditarne le prerogative mantenendo inalterate le caratteristiche?

Sul gossip, c’è un aspetto da precisare. In 64 anni di regno, Elisabetta ha fatto parlare pochissimo di sé. Ci ha pensato la sua famiglia, ad arricchire la cronaca mondana. Da un punto di vista formale, sono state cambiate le regole della successione dinastica, aprendo alle donne in formula paritetica con gli uomini. Anche lì, deve esserci stato il suo zampino. Sul piano della popolarità, è indubbio che William e Kate stiano studiando da re e da regina. Kate ha preso il posto di Diana nell’immaginario collettivo. Su Carlo pesa la vicenda di Lady D., e quella di Camilla Parker Bowles, con cui ha regolarizzato l’unione, ma solo in un secondo tempo. In molti pensano che Carlo rinuncerà alla successione. Lo farà solo se sarà Elisabetta a chiederglielo.

Che cos’è, oggi, la corona inglese?

Una straordinaria macchina moderna di relazioni internazionali. Che non rinuncia al coinvolgimento politico attivo. Sia Cameron, sia Blair, più volte hanno sottolineato come la regina faccia molte domande sulle loro scelte politiche e pretenda risposte concrete. Il Sun ha raccontato di una grande attenzione da parte di Elisabetta nel dibattito sulla Brexit. Sono convinto che lei si manterrà super partes, pur avendo vissuto prevalentemente in un’era dove il dibattito sulle istituzioni europee aveva connotazioni diverse da quelle di oggi.

Perché gli inglesi difficilmente rinuncerebbero all’istituzione monarchica?

Sembra un paradosso, ma in un momento confuso della politica europea, in cui anche le democrazie – pensiamo alla Grecia, ma non solo – appaiono depotenziate, la corona acquisisce un ruolo di garante ultimo di costituzionalità.

Nella scelta dei personaggi raccontati, non manca il fascino dell’oscuro, dell’apparentemente “cattivo”. Dove vi siete procurati il materiale su Kim Jong Un, considerata l’impermeabilità del regime nordcoreano?

Abbiamo a disposizione materiale ricco e vario, più di quanto potessimo pensare all’inizio. Attingendo un po’ dalle reti indipendenti occidentali, un po’ dai filmati istituzionali della Corea del Nord, dalla forte valenza spettacolare. Kim Jong Un risulta interessante proprio perché il suo lato oscuro colpisce il pubblico. Anche Assad conserva questi aspetti, ma in modo assai più doloroso, perché è lo specchio dei nostri problemi, tra immigrazione, terrorismo, destabilizzazione dell’area mediorientale.

Poi Obama a fine mandato e Merkel, che è la chiave di tante cose, in Europa.

Obama ha esaurito il suo secondo mandato. Dunque si prospetta un bilancio della sua azione, arricchito da particolari poco noti sulla sua gioventù. Non scordando il passaggio di testimone, in un confronto che sembra ormai animato dalla Clinton e da Trump, su cui ci si soffermerà. Angela Merkel, invece, significa Europa, significa euro, significa immigrazione. Parlare di lei significa parlare degli elementi che condizioneranno la nostra vita nell’immediato futuro.

A proposito: Clinton o Trump?

La battaglia per la Presidenza americana tradizionalmente si gioca al centro, dunque Hilary Clinton è favorita. Trump è un fenomeno mediatico con tratti comuni alla Le Pen e ai movimenti identitari europei. Ha un appeal divisivo, estremo, capace magari di mietere consensi socialmente trasversali. Ma difficilmente può vincere.

Inevitabile che il meccanismo biopic potrebbe essere interessante anche per raccontare le figure chiave della nostra politica. Andando a ritroso nel tempo, invece, quali figure dal dopoguerra a oggi, avrebbero una valenza contemporanea?

La nostra politica attuale non si presterebbe a questo tipo di analisi, perché non siamo ancora in era di bilanci effettivi. Tanti invece sono i personaggi del passato che mi piacerebbe raccontare. Penso a De Gasperi, Andreotti, Fanfani, Spadolini, Moro, Berlinguer. Penso a un Papa come Paolo VI, che ha vissuto gli anni dell’antifascismo, gli anni ’70 con le chiese che progressivamente si svuotavano, quelli del Concilio, il dramma del rapimento Moro.

La formula del ritratto monografico abbraccia il formato-racconto, lo istituzionalizza e nel contempo lo smitizza insistendo su tic, manie e aspetti controversi del personaggio narrato. Ma il raccontare storie è anche prerogativa dell’infotainment televisivo a tutto tondo. Pomeriggio 5, che lei coordina, ha un taglio editoriale diverso.

La tv va sempre ripensata. L’approfondimento classico dei Biagi e dei Minoli ha fatto scuola, ma oggi il giornalismo è più immediato, veloce, benché la gente non smetta mai di voler capire. Una storia funziona bene se si azzecca il taglio con cui raccontarla. Anche Pomeriggio 5 lo fa. Ma in un altro modo. Con un racconto semplice, popolare e diretto.

Provinciale, direbbe qualcuno.

Non mi offendo. L’Italia non è Milano o Roma. Sono i piccoli paesi di provincia, con botteghe e campanili. Dove si muovono protagonisti che si chiamano Guerrina, Valdemaro. Nomi inconsueti, di gente comune. Normale. Che a volte anima storie fatte di soldi, sangue, successo, grandi passioni, enormi bassezze. Il romanzo popolare contemporaneo, le pulsioni umane di tutti i giorni. Raccontiamo quello, e lo facciamo per un pubblico che non necessariamente ha una preparazione culturale profonda.

I vostri detrattori sostengono che ogni tanto si speculi troppo sulle miserie umane.

Da quando io sono in carica, non credo di aver mai speculato. Ho detto molti “no”, nessun ospite è mai stato pagato per una dichiarazione o una presenza. Cerchiamo di essere garantisti e di rappresentare tutte le parti in gioco, soprattutto nei casi di cronaca nera. Barbara D’Urso, poi, ha una forza incredibile nel saper parlare al pubblico popolare, alla signora che è in casa e vuole informarsi mentre sta stirando o cucinando. Quella è l’empatia con l’Italia semplice, non tecnologica, che cerca informazione in modo diretto. Poi, abbiamo anche una parte di talk più leggera, legata allo spettacolo.

Qual è stato lo spartiacque televisivo contemporaneo nel racconto della nera?

Il caso di Sabrina Misseri. Un vento forte che ha rischiato di travolgere il resto, rendendolo residuale. Se non se ne parlava, non si riusciva a rendersi visibili al pubblico. Era un vento pieno di rischi. In situazioni del genere, più è forte l’interesse della gente, più alto è il pericolo di perdere l’equilibrio del racconto. A noi non è capitato.

A proposito di visibilità, quanto conta la battaglia quotidiana con la Rai, nel selezionare la vostra linea editoriale?

Mi vanto di essere stato in carica nella prima settimana di Pomeriggio 5 e di aver contribuito a impostare un linguaggio diverso e antitetico a quello usato dalla Rai ai tempi. Oggi La vita in diretta presenta aspetti simili ai nostri. Non voglio dire che abbiano copiato, ma di certo non siamo stati noi a seguire loro. La Rai, del resto, da qualche tempo ha moltiplicato o potenziato contenitori di questo tipo: da Storie Vere a Chi l’ha visto.

Nella sua carriera di giornalista, c’è un episodio particolare che conserva gelosamente come ricordo personale?

La diretta di Rete 4 sull’elezione del nuovo Papa. Tra una fumata nera e un primo piano sul balcone papale, non ho avuto il coraggio di pronunciare il nome di Bergoglio, ma ho detto, prima che il Conclave terminasse, che mi sarebbe piaciuto vedere affacciarsi un Papa dal nome emblematico di Francesco. Forse perché, se provi a star dietro alle logiche degli avvenimenti cercando di spiegarle, le intercetti con tempestività.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Alessandro Banfi)