Pubblicato il 28/03/2016, 18:02 | Scritto da La Redazione
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Rassegna stampa – Chi ha messo in pausa il finale?

Rassegna stampa – Chi ha messo in pausa il finale?
Prosegue la sfida tra gli episodi conclusivi delle serie: sempre aperti o discutibili. E intanto lo spettatore sta a guardare.

Rassegna stampa: Sette del Corriere della sera, pagina 100, di Paolo Martini.

Chi ha messo in pausa il finale?

Prosegue la sfida tra gli episodi conclusivi delle serie: sempre aperti o discutibili. E intanto lo spettatore sta a guardare.

Per il finale del nuovo X-Files, l’attore protagonista David Duchovny ha postato via Instagram, su un cielo cupo e misterioso, la scritta «The truth is on hiatus», La verità è in pausa. Già: su questo vuoto s’attesta ogni “finale” di stagione delle serie più seguite. Sono in tanti a immaginarsi quale storia lascerà aperto, per esempio, l’episodio 6-16 di The Walking Dead, annunciato per inizio aprile, mentre il racconto sprofonda nell’inferno del Male personificato da Negan. Tutto è possibile: il Finale è morto, e forse perciò anche noi spettatori non ci sentiamo più tanto bene. Se ne può parlare in termini culturali, coi libri scientifici di Eco a portata di mano, per scoprire che le serie hanno «risemantizzato il valore canonico della fine di una storia». Lo ha fatto Bianca Terraciani, sulla rivista online Doppiozero, in L’eterno ritorno di X-Files: «Il finale non ricopre più il ruolo “topos” di disvelamento, bensì assurge ad atto generativo orientato al costante rinnovo delle occasioni narrative». Secondo la semiologa Isabella Pezzini, «i serial televisivi cannibalizzano le infinite possibilità dei loro testi, intrecciando cicli di eterni ritorni e stravolgimenti sulle invarianti della struttura del racconto».

Si può prendere il discorso anche attraverso un’analisi di marketing a livello teorico, come fa nel capitolo su L’éra digitale” il libro American storytelling di Federico di Chio (Carocci editore, pp. rgo, 15 euro). Anche qui ci vuole una buona scorta di pazienza, stavolta per l’inevitabile messe di termini in inglese, ma vale la pena di affrontare questa nuova prova d’erudizione di un manager pensante di Mediaset. Lungo questo percorso sulle forme del racconto nel cinema e nelle serie televisive si scoprono nuove prospettive e spunti pur sempre singolari. Tra l’altro, di Chio spiega molto bene, persino nei dettagli tecnici del nuovo linguaggio visivo, come gli americani abbiano cambiato allo spettatore la sua stessa posizione: questo salto di linguaggio cinematografico ha accompagnato la progressiva sottrazione della prospettiva finale nella scrittura, e così il racconto che si è fatto sempre più molteplice, ovvero un racconto di racconti che s’intersecano. Dal modello narrativo organico, sintetizza di Chio, siamo passati a quello rapsodico. Alla fine verrebbe da chiedersi se non si sia radicato persino nella serialità lo schema del “turista per sempre”: il viaggiatore permanente è la metafora perfetta dell’individuo nel mondo globalizzato. Figura chiave della nostra Società dell’incertezza, secondo le ben note analisi di Zygmunt Bauman già nel ’99, il turista è il prototipo del nostro modo di fare esperienza solo in superficie, «di trasformare la vita in scorribande estetizzanti». Una vita, dunque, esattamente “a episodi”, che non ha più chiare mète di scopo, come appunto i viaggi. Le serie sono talmente il racconto perfetto del mondo delle nostre Vite mobili (titolo di un bel saggio dei sociologi Bliot e Huny, tradotto dal Mulino nel 2010), che non riescono neppure più ad arrivare a un finale.

 

(Nella foto il cast di X-Files)