Pubblicato il 28/12/2015, 14:30 | Scritto da La Redazione

Rassegna stampa – Paolo Ruffini: “In Italia oggi la felicità sta sulle palle a tutti”

Rassegna stampa: Libero, pagina 17, di Alessandro Milan.

“In Italia oggi la felicità sta sulle palle a tutti”

Non solo scrittore, a teatro con compagnia di disabili. Il comico Ruffini: “Su Facebook la democrazia diventa fascismo, ma insegno ai ragazzi a cercare Madre Teresa su Google”.

Pensi a Paolo Ruffini e ti viene in mente la leggerezza, la voglia di ridere che rischia di sconfinare nella superficialità. Conosci Paolo Ruffini e scopri il suo lato nascosto: la sensibilità, la ricerca costante del bello e della felicità, il coraggio di spendersi per gli altri. Pensavate a un eterno guascone, ed eccovi servito un artista che porta in una tournée teatrale una compagnia di attori disabili, che cita Madre Teresa, che spiega come sia sbagliato odiare e che ci svela cosa ha imparato dal dramma di un 14enne morto per un tumore.

Paolo Ruffini, livornese, classe 1978, sei al cinema col classico cine-panettone, Natale col boss.

«Che sta andando alla grande. Il cine-panettone è una tradizione bellissima ma in Italia ci sono parole che non si sa perché diventano un insulto».

L’accusa la conosci: è cinema di serie B.

«È un vanto. La grande industria cinematografica italiana ha campato per anni grazie ai film di serie B, ma anche di serie Z. Poi questo film ha avuto anche recensioni positive».

Sarai contento.

«Sono allibito, han perfino parlato bene di me, c’erano giornalisti entusiasti e applausi all’anteprima. Tutto ciò mi ha turbato profondamente» e ride.

Ecco, il tuo lavoro è far ridere. Ma vedi questa gran voglia di ridere ultimamente?

«Poca per la verità, si è perso il senso dell’umorismo. La gente si arrabbia subito, si offende. Uno dice una cosa e l’altro parte in quarta: ti querelo».

Come mai?

«Credo per due motivi. Primo siamo in un’epoca in cui ognuno di noi si prende straordinariamente sul serio. I social consentono a tutti di essere opinionisti, anche a chi non ha i numeri per esserlo. Facebook ha portato al parossismo della democrazia che è diventata quasi fascista».

In che senso?

«Prendi Gabriele Muccino: scrive che per lui Pasolini non era un regista tanto valido e lo minacciano di morte. Sui social si scambia la libertà di parola per libertà di insulto».

Il secondo motivo per cui si ride poco?

«È che la felicità sta sulle palle a tutti».

È invidia?

«Invidia e paura. Felicità e bontà sono due parole che qualcuno ha stabilito fossero banali, quindi ci si vergogna a usarle. La felicità così diventa un tranello, se sei felice c’è qualcosa che agli occhi della gente non va. Se io ti consiglio un succo di frutta tu mi chiedi “sì, ma quanto ti danno?”. C’è troppa malizia. Ridere è diventato difficile, anche perché vogliamo sempre sentirci migliori di qualcuno e giudichiamo. Soprattutto giudichiamo il pubblico, il che mi spiace da morire».

Intendi il tuo pubblico?

«Se un mio film non ti piace, dì che non ti piace, ma non giudicare il pubblico che lo guarda. Invece non facciamo altro che sentir dire “è un film per deficienti”. Questa cosa mi fa imbestialire perché io sono quel pubblico lì. Io guardo Maria De Filippi, a mia zia piace da morire, non vedo perché tu debba giudicarla».

È difficile far ridere, eppure tra i nuovi progetti che hai c’è un talent sui comici in onda su La7.

«Si intitolerà Eccezionale Veramente, sarò tra i giurati insieme a Diego Abatantuono, presidente della giuria, e si parte a marzo È un contest molto concreto, ai due vincitori andranno contratti di lavoro per due anni. Sarà una bella sfida».

Sui professionisti dell’odio tu hai scritto un libro: Odio ergo sum in cui raccogli tutti gli insulti peggiori che ti sono arrivati. Cosa faresti a un odiatore di professione?

«Li abbraccio, li accarezzo. D’altronde han bisogno di affetto, cure, attenzioni, sono persone infelici che probabilmente non fanno molto l’amore, si annoiano. Insomma è la famosa gente che non ha proprio niente da fare. Io a 16 anni non mi sarei sognato di scrivere una lettera piena di insulti a Jerry Calà, Gianfranco D’Angelo o Massimo Boldi. Avevo di meglio da fare».

Ma perché un libro?

«Perché è una cosa seria, non tanto per me. Io il libro l’ho dedicato ai ragazzini che hanno perso contro l’odio. Dall’insulto sui social al cyber-bullismo il passo è breve. E succede che una 14enne ripresa in atteggiamenti osé e presa in giro si suicida, che l’omosessuale di 15 anni sbertucciato si toglie la vita. Queste cose succedevano anche ai miei tempi: tornavi con l’occhio nero da scuola, ti chiedevano “chi è stato?”, lo si prendeva a calci nel culo e via. Oggi invece avviene tutto in modo più strisciante. L’hating è un vero e proprio reato».

Ci siamo conosciuti due anni fa a Ponza. Sembravi il “Pifferaio magico”, camminavi e man mano si aggiungevano ragazze e ragazzi, dopo un quarto d’ora di struscio erano centinaia. Non ti viene voglia di sparire ogni tanto?

«No. Se a uno di questi ragazzi veicolo un messaggio positivo, ho fatto qualcosa. Se metto sul mio sito la frase di Madre Teresa “non invitatemi mai a una manifestazione contro la guerra ma se ne fate una a favore della pace io sarò in prima linea” e ragazzi di 14-15 anni vanno su Google a cercare Madre Teresa di Calcutta, ho fatto capire loro che non bisogna essere necessariamente contro qualcosa ma si può essere anche a favore».

C’è un Paolo Ruffini che in pochi conoscono: per esempio fai uno spettacolo con una compagnia di attori, tra cui molti portatori di handicap.

«S’intitola “Un grande abbraccio” con la compagnia Mayor Von Frinzius. È uno spettacolo divertente, io cerco di mettere in scena un grande varietà e loro me lo impediscono in tutti i modi. È un’improvvisazione, loro entrano a gamba tesa sul palcoscenico e mi massacrano. Siamo in scena da fine gennaio ad aprile, le date le trovi sul mio sito http://www.paoloruffini.it/#/ho- me».

La gente conosce il Paolo Ruffini che fa ridere, pochi conoscono il Paolo Ruffini che fa piangere. Io ho pianto nel vedere il docu-film Resilienza in cui racconti la storia di Alessandro Cavallini, morto a 14 anni per un neuroblastoma.

«Quel documentario viene premiato proprio oggi, il 28, a Capri, Hollywood 2015 con il Capri DOCU Award. Alessandro, figlio di un carissimo amico, mi ha fatto capire che un limite è tale se tu mi dici che lo è. Ma un limite può essere anche una grande opportunità. Trasformare un limite in opportunità significa permettersi la felicità. La felicità non è un mito, non è una chimera, spesso ce la neghiamo, non abbiamo il coraggio di viverla eppure ce l’abbiamo in tasca. Alessandro era un ragazzo che nonostante la malattia diceva “io sto bene, sono felice”. Non diceva una bugia, era la realtà».

Cos’è la resilienza?

«Nel caso di Alessandro è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici. Il che non significa non avere fragilità. Anzi, Inside out ce lo insegna, non bisogna temere la tristezza. La tristezza ci fa distinguere il bene dal male, non bisogna aver paura di prenderla per mano. Girare Resilienza mi ha insegnato che riconoscere la felicità in condizioni di disagio ti rende ancora più felice, perché è veramente una cosa che pensavi di non avere, ed è più grande di quanto tu te l’aspettassi».

C’è poi un Paolo Ruffini che espone le sue installazioni.

«Quest’estate a Livorno vedo un gabbiano, simbolo di libertà, penso al Gabbiano di Livingston. È un uccello che ha nella stessa parola la negazione di costrizione, “Gabbia No”. Deposito l’idea, inizio a disegnare delle cose, le faccio vedere a un amico della Fondazione versiliana, le affido a maestri artigiani bravissimi e il tutto diventa una mostra. A Pietrasanta, fino al 7 febbraio, ci sono cinque installazioni mie, gabbiani di tre metri e mezzo in resina. Rappresentano la libertà».

Tu ami la bellezza.

«Sì e sai perché? Siamo disabili alla bellezza, ne abbiamo paura, ce la neghiamo. Invece dovrebbero insegnare la cultura del bello a scuola».

Ruffini e la politica.

«Non si capisce quali siano le idee dei politici, si capiscono solo i loro interessi. Tu, politico, mi puoi anche prendere meravigliosamente in giro, l’importante è primo che io un po’ lo sappia, secondo che tu mi faccia vivere meglio. Paolo Villaggio diceva che gli italiani non se la prendono coi politici perché rubano ma sono invidiosi perché vorrebbero rubare come loro».

È vero?

«Un po’ sì. Io voglio tornare a credere nella politica. È come con Babbo Natale, la mia vita era più bella quando ci credevo. Poi i politici facciano anche un po’ i loro interessi, l’importante è che la presa in giro non sia così clamorosa e plateale».

Tra i tuoi innumerevoli tatuaggi, ne hai uno che raffigura Wile Cojote e Gatto Silvestro che si stringono la mano dopo avere impiccato Beep Beep e Titti.

«Per una volta vincono i perdenti, quel tatuaggio è una grande rivolta proletaria. Ecco, voterei Wile Coyote».

Come premier un bel coyote.

«Almeno è dichiarato cosa vuole. So che vuole lo struzzo, non dice che mi fa mangiare, dice che vuol mangiare lui, è onesto. È scemo ma è onesto. Poi lo sai com’è il finale, no?»

No.

«Quando Wile Coyote prende lo struzzo tira fuori il cartello con su scritto: e ora cosa faccio? Che è la cosa che fanno tutti quelli che vincono. Mi immagino il premier appena eletto, va al potere e pensa “ora che faccio?”. Te lo dico io che fai: prendi lo struzzo e ci fai vedere come lo amministri. Così dovresti fare».

 

(Nella foto Paolo Ruffini)