Pubblicato il 19/12/2015, 18:02 | Scritto da Gabriele Gambini
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Netflix si tinge di colori kafkiani con “Making a Murderer”

Netflix si tinge di colori kafkiani con “Making a Murderer”
Il documentario realizzato da Laura Ricciardi e Moria Demos ripercorre la vicenda umana e giudiziaria, tutt'ora aperta, di Steven Avery e porta alla luce alcune incongruenze del sistema americano.

Fare la fine del topo, morire a poco a poco in piena consapevolezza, squittendo le aspirazioni di una vita che non è mai stata, ma avrebbe potuto essere. Netflix si appropria di tinte kafkiane con il documentario in 10 puntate Making a Murderer (diretto da Laura Ricciardi e Moria Demos, presentato in anteprima al DOC NY Film Festival), disponibile sulla piattaforma da ieri, 18 dicembre. È la risposta a The Jinx: The Life and Death of Robert Durst della HBO, con cui condivide l’argomento giudiziario e i suoi meandri nebulosi, ma se ne distanzia in modo sostanziale perché al centro del racconto, in questo caso, non c’è la vicenda di un sicuro colpevole, ma quella di un presunto innocente, Steven Avery. Da trent’anni protagonista di controversie investigative che ne hanno minato l’esistenza, la parabola umana di Avery è facilmente riassumibile: cittadino di una contea del Wisconsin, incriminato nel 1985 per una violenza sessuale dalla quale si è sempre dichiarato estraneo, è stato scagionato nel 1988 grazie all’introduzione della prova del DNA, rilasciato nel 1994 a seguito di un furioso batti e ribatti processuale, celebrato dai media e dai politici locali come martire della giustizia e, quando tutto sembrava volgere al meglio, incriminato nuovamente e condannato a 32 anni nel 2005 per la sparizione e l’uccisione della giovane fotografa Teresa Halbach dagli stessi funzionari che l’avevano accusato anni prima.

Come nella miglior tradizione narrativa dei docu-film contemporanei, Making a Murderer parte dalla ricostruzione della vicenda umana del protagonista attraverso un serrato montaggio di testimonianze e immagini che ne ripercorrono a ritroso la vita. Il risultato consegna un prodotto dinamico come una serie-tv, notevolmente stratificato – merito dei ritmi incalzanti e di scelte registiche precise – che amplia le prospettive iniziali e si astiene dal formulare giudizi. La vita di Avery è la leva per raccontare il lato meno glamour e più identitario degli Stati Uniti d’America, lontano dai riflettori delle città modaiole come New York o Los Angeles ma influenzato dal loro luccichio: quello della provincia profonda, delle reputazioni costruite sulla base di fitte relazioni interpersonali e familiari, dove le autorità locali costituiscono un centro di potere in grado di condizionare lo svolgimento di un’inchiesta. Con il concorso decisivo dei media, dei politici di contea, dell’opinione pubblica. È il racconto del quotidiano di cittadini anonimi a contatto con certe incongruenze dei sistemi giudiziari, diffuse a ogni latitudine al punto da permettere di inciampare nella banalità di frasi fatte quali: “Tutto il mondo è paese”. Netflix Italia, questa volta, ha deciso di mettere on line il primo episodio completo, che trovate a questo link.

 

Gabriele Gambini

 

(Nell’immagine la locandina del documentario)