Pubblicato il 16/10/2015, 18:32 | Scritto da Gabriele Gambini
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Anna Ferraioli Ravel: “Con Vincenzina ne ‘L’onore e il rispetto 4’ non mi aspettavo di suscitare tanta partecipazione”

Anna Ferraioli Ravel: “Con Vincenzina ne ‘L’onore e il rispetto 4’ non mi aspettavo di suscitare tanta partecipazione”
Intervista all'attrice che ha dato vita al ruolo di "Vincenzina" nella fiction Mediaset "L'onore e il rispetto 4": a TVZOOM svela particolari inediti della sua carriera e del suo futuro.

Anna Ferraioli Ravel. Salernitana. Attrice. 27 anni. Segno zodiacale: Vergine. Il massimo della pignoleria, secondo gli astrologi. «Perfezionista sul lavoro, caotica nella vita personale», puntualizza lei. «Del resto, l’unico oroscopo che leggo, è quello di Rob Brezsny su Internazionale, perché è così criptico che puoi dedurre quel che ti pare», aggiunge. Anche sul suo ruolo di Vincenzina nella fiction L’onore e il rispetto 4, i fan hanno fatto deduzioni: «A volte mi fermano per strada e mi chiedono: ma tu sei davvero così perfida?».

In effetti, dopo il diploma al Centro Sperimentale di Roma, diversi ruoli teatrali, il lungometraggio La prima volta di mia figlia e il film Ma che bella sorpresa di Alessandro Genovese (Colorado Film), la fiction televisiva le ha dato visibilità pop.

L’ondata pop mi ha investito come un fiume in piena. Non avrei mai immaginato che il mio personaggio potesse far tanta presa sul pubblico. Pubblico che ha vissuto l’esperienza sul piccolo schermo con accanimento partecipe: qualche giorno fa, al bar, una signora mi ha squadrato per tutto il tempo della colazione, ha ascoltato la mia voce e ha esclamato: “Allora sei davvero tu!”. Tutto ciò mi diverte.

Ha avvertito il cambiamento anche sui social?

Sono diventata tecnologica da poco. Fosse per me, adopererei ancora i piccioni viaggiatori. Ma ho fatto di necessità virtù. Soprattutto potenziando Facebook. È lì che ho riscontrato il cambiamento. Mi hanno informata anche dell’esistenza di Instagram e Twitter ma star dietro a tutti i social network esistenti è estenuante.

Sarà che il personaggio di Vincenzina nella fiction muore, dunque avvicinare lei è un modo per mantenerlo vivo.

La sua morte ha suscitato scalpore e la narrazione ha sorpreso anche me. Mi ci ero affezionata. Sono felice quando interpreto personaggi così distanti dal mio essere. Sia esteticamente, sia psicologicamente.

Procediamo con ordine. Esteticamente.

Una cosa su tutte: mi hanno riempito così tanto di lacca da plasmare una nebbiolina perenne intorno alla mia testa per tutta la durata delle riprese (ride, nda).

Psicologicamente.

Mi risulta facile calarmi in un ruolo agli antipodi da me. Quando ho letto la sceneggiatura, ho fatto scattare un meccanismo di immedesimazione. Ci sono riuscita grazie agli altri attori della produzione. Soprattutto Lina Sastri e Massimo Venturiello, che interpretavano la parte dei miei genitori.

La difficoltà maggiore, in tutto questo?

Forse imparare bene l’accento siciliano. Sono campana, ho una discreta familiarità con i dialetti del sud. Ma il dialetto siciliano è un mondo multiforme in cui la cadenza può cambiare a seconda delle province. Trovare quella giusta e rappresentarla con efficacia è stata una bella sfida.

Molti suoi colleghi sostengono che interpretare la parte di un “cattivo” sia affascinante.

Sì, lo è (ride, nda). In generale, penso che le caratterizzazioni marcate offrano maggiori possibilità di articolare un’interpretazione. La chiave deve essere trovata lavorando di immaginazione. Con un particolare importante: non conta la bontà o la cattiveria di un personaggio, contano le condizioni che concorrono a determinare la sua inclinazione. Da lì si deve partire per evitare banalizzazioni.

Essere approdata a una fiction generalista è una sfida differente rispetto al teatro o al cinema.

Differente, benché non sia teorica dei compartimenti stagni. I linguaggi cambiano a seconda del mezzo, ma l’attore resta tale sempre e comunque. L’essenziale è saper declinare quei linguaggi rispettando le proprie competenze di rappresentazione. I tempi televisivi obbligano a ritmi più serrati rispetto al cinema. Ho avuto modo anche di osservare il grande lavoro della troupe e delle maestranze dietro a una produzione tv.

E Gabriel Garko? Faccia contente le signore, racconti qualcosa di lui.

Sul set ho interagito poco con lui perché i nostri personaggi agivano in blocchi narrativi separati. Posso però dire che umanamente è una persona molto carina e disponibile.

L’anno prossimo per lei che cosa accadrà?

Interpreterò la parte di Lorena nel film Il centro del mondo di Kim Rossi Stuart e sarò a teatro con Giulio Scarpati, in uno spettacolo che ha la regia di Nora Venturini. In passato ho partecipato anche al corto Ci vuole un fisico, con Alessandro Tamburini: si sta lavorando per trasformarlo in un lungo.

Come ci si trova a fare il mestiere di attore in Italia, oggi?

In questo momento ci sono più attori che semafori, diciamola tutta. Orientarsi non è facile. Credo che le linee guida siano le stesse di qualunque mestiere: occorrono competenza, predisposizione, studio. Forse è opportuno ridefinire i confini di chi esercita un mestiere artistico, inquadrandolo meglio e garantendogli maggiori tutele. Tuttavia, sono ottimista: l’Italia in passato ha dato vita ai fasti del cinema internazionale e, a lungo termine, talento e dedizione pagano anche in quest’epoca.

Oggi però siamo nell’era in cui le serie tv hanno preso in appalto la narrazione della contemporaneità.

Sono una bella opportunità per tutta l’industria di spettacolo. Negli USA il mercato televisivo è sempre più ampio e potrebbe avere influenze positive anche nello sviluppo di prodotti nostrani. Penso a Gomorra, per esempio, che si è rivelato esportabile all’estero con successo. Cavalcando quest’onda, ci si garantisce un responso attivo del pubblico, che si dimostra ricettivo, indirizzando le scelte di produzione secondo criteri di qualità.

La qualità principale che deve possedere una fiction o un film?

Commuovere. Nel senso di smuovere emozioni, trasmettendole. Da questo punto di vista, non c’è differenza tra commedia e dramma. Anzi, spesso la commedia ha vissuto epoche di dignità così elevata e profonda da essere messa in prima fila nel rappresentare le pulsioni umane.

Fermo restando che lei ha sempre voluto fare questo mestiere.

Recito da quando sono piccola. Al liceo classico ho partecipato a dei laboratori teatrali. Portavamo sulla Costiera Amalfitana alcune opere del teatro di De Filippo. Consideravo la recitazione un’opzione interessante. Ma, finito il liceo, mi sono iscritta a Diritto Internazionale Italo-Francese. Ho frequentato La Sorbona di Parigi. Volevo diventare una sorta di Kofi Annan o di Ban-Ki-Moon in gonnella, risolvendo i conflitti mondiali in tacchi a spillo. Poi, per sfida, mi è capitato di fare un provino al Centro Sperimentale di Cinematografia, superandolo. E la mia vita ha preso un’altra piega, che mi piace moltissimo.

La sua famiglia che ha detto?

Si è adeguata. I miei genitori provengono da contesti professionali distanti dal cinema. Eppure mia madre è una grande fan della settima arte, non si perde mai un Festival. Se sulle prime erano dubbiosi, oggi mi incoraggiano.

Non ci sarà solo la recitazione, nella vita di una ventisettenne.

Mi piace cantare. Canto jazz, soprattutto. Suono pianoforte. Viaggio senza pianificazioni: scelgo un posto e, dall’oggi al domani, ci vado. Mi piace guidare la macchina senza una meta precisa. E scrivere soggetti, magari da rappresentare.

Soggetti come…?

Sto producendo un documentario sulla sinistra europea. Partendo dalla storia dei suoi padri costituenti, Gramsci, Nenni e Pertini, per affrontarne gli aspetti sfaccettati di oggi. Un confronto generazionale tra chi viveva la resistenza e partecipava con dramma interiore alla costruzione della società e la situazione attuale, in cui è protagonista la “generazione del lamento”, incline alla rappresentazione del dramma esteriore.

Sarà anche in veste di regista?

No. Mi piace scrivere soggetti, ma ognuno deve mantenere le sue competenze specifiche.

 

Gabriele Gambini
(Nella foto Anna Ferraioli Ravel)