Pubblicato il 14/10/2015, 16:35 | Scritto da Gabriele Gambini
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Simone Annicchiarico: “A ‘Fronte del palco’ si parla di musica pop. Ma se ne scopre anche il lato sorprendente”

Il promo televisivo di Fronte del Palco (Italia 1, ogni mercoledì in seconda serata) è eloquente: Simone Annicchiarico prende una chitarra elettrica, attacca il jack e si lancia nel vortice sonoro in stile Jimmy Paige dei Led Zeppelin. In barba a chi sosteneva che l’aura della musica live non fosse più attraente per la tv odierna. L’appuntamento col programma realizzato in collaborazione con Radio Italia e R101 mantiene intatti gli ingredienti della scorsa stagione: costi produttivi non eccessivi, artisti del giro mainstream, buon riscontro di pubblico potenziale. «Tornando all’essenza dei live, intervallandoli con una chiacchierata assieme all’artista direttamente sul palco», dice Annicchiarico. Si parte stasera con Max Pezzali, si continua con Eros Ramazzotti, Raf, Il Volo, Negramaro, Francesco De Gregori e Zero Assoluto.

I live musicali tirano ancora nella tv di oggi.

Puntiamo a sfatare il dogma di chi diceva che la musica in tv non funzionasse. L’Italia non è un Paese di grandi teste musicali e non possiede forse la cultura dell’osare nelle proposte. Tuttavia, Fronte del Palco ha delle prerogative interessanti: uno showcase di un’ora scarsa in un ambiente intimo, con pubblico vero e partecipe, senza una claque pagata per applaudire e senza orpelli.

Il punto di partenza è il live. Intervallato però da dalla forma racconto, con un’intervista breve all’artista di turno direttamente sul palco.

A metà show mi siedo a fianco degli artisti e chiacchiero con loro. Qualche aneddoto inedito, progetti per il futuro, spiegazioni delle loro scelte. Una conversazione semplice che consente al pubblico di avvicinarsi maggiormente alla musica proposta. Magari scoprendone aspetti nascosti.

Il programma era partito come un esperimento. Se continua, significa che l’esperimento è stato soddisfacente.

Ti confesso che non ce l’aspettavamo. Quando un programma va bene o va male, ti siedi attorno a un tavolo e cerchi di intercettarne le ragioni. L’anno scorso avevamo iniziato con Fedez e pensavamo che la sua figura molto popolare sul web e nell’universo teen avesse fatto da richiamo decisivo. Poi però ci siamo resi conto che la formula poteva essere estesa a livelli diversi.

Livelli diversi, ma sempre appartenenti al giro pop dell’intellighenzia italiana. So che lei, da purista della musica e da conoscitore dei suoi aspetti più articolati, potrebbe non essere un fan degli artisti che la vengono a trovare.

Diciamocela tutta: il pop non sempre mi appartiene. L’elenco di artisti proposti è in linea con le prerogative di una generalista e su questo non discuto. C’è però un aspetto interessante, in tutto questo: intervistare musicisti la cui musica sulle prime non mi entusiasma, mi permette di conoscere il loro mondo senza filtri partigiani. Ho scoperto di avere alcune cose in comune con loro che sulle prime non mi aspettavo.

Per esempio?

Max Pezzali o Raf. Hanno una dimensione compositiva facile e riconoscibilissima. Poi però parli con loro e salta fuori che sono dei fan accaniti dei Kraftwerk. Oppure Enrico Ruggeri. Il grande pubblico lo conosce per hit come Mistero, non sono in molti a sapere che agli esordi suonasse punk assieme ad Alberto Camerini.

Quindi si vira indirettamente su tematiche accelerazioniste? Nel senso, si sviscera il pop fino a sfibrarne l’essenza e si scoprono basi che così pop non sono.

Si scopre che alla base di tutto c’è la musica e che puoi partire dal pop, dal rock, da quello che vuoi, per trasformarla in entità sonora plasmabile.

Ha parlato prima di Fedez. Il web si affianca di pari passo nel racconto televisivo.

Cerchiamo di parlare a tutti, anche alla generazione nata col web. L’anno scorso abbiamo avuto Fedez e, nella puntata successiva, Carmen Consoli. Artisti agli antipodi.

Chi l’ha sorpresa di più, onestamente?

Elio e le storie tese. Una sorpresa calcolata, ma pur sempre una sorpresa. Stiamo parlando della band tecnicamente più versatile dell’intero ‘900, anche più della PFM. La loro forza è il piglio rock adattabile a qualunque contesto. Puoi chiedere loro di improvvisare un pezzo dei Led Zeppelin e, subito dopo, uno di Nilla Pizzi, e loro lo eseguono senza battere ciglio in maniera perfetta. Possono suonare dovunque e con chiunque.

Poi però Elio finisce a fare il giudice in un talent show, formato che fa storcere il naso a qualche purista.

Da un punto di vista estetico posso comprendere le critiche rivolte ai talent. Ma, se devo dirla tutta, anch’io farei il giudice in un talent, se me lo chiedessero. Non il conduttore, tanto meno il concorrente. Ma il giudice, sì. Ti consente di mettere a fuoco il tuo lato didattico e la tua cultura personale, mettendoli al servizio di un prodotto. Il limite dei talent, forse, sta nella loro standardizzazione, nel far passare il messaggio che sia sufficiente la tecnica per emergere.

Invece la tecnica non basta.

Non basta il vocalizzo perfetto, la ricerca del virtuosismo per dimostrarsi riconoscibili al grande pubblico. Quel che conta davvero non è tanto la tecnica, ma riuscire a trasmettere emozioni peculiari. Pensiamo a Janis Joplin: si nutriva di whisky, eppure aveva una dimensione vocale inimitabile. Creava delle visioni, come Bach o Mozart, come i Beatles.

Nel suddividere il suo ruolo tra esigenze pop e ricerche concettuali, non ha mai pensato di proporre qualcosa per la tv capace di coniugare i due mondi?

Vuoi sapere un programma che mi piacerebbe davvero fare? Prendere tre persone del mondo dell’arte e dello spettacolo, spedirli nei migliori ristoranti facendo fare loro delle recensioni originali e strane (ride, nda). Scherzo. In realtà, c’è un aspetto che in generale manca alla tv di oggi, non mi riferisco alla musica ma al piccolo schermo in generale.

Dica.

La riscoperta del gusto surreale tipicamente italiano. In un programma capace di ritrovare l’essenza dell’improvvisazione, come faceva Arbore negli anni ’80. Una fucina di talenti e di idee mai preconfezionate. Oggi si tende a importare tutto dagli Stati Uniti d’America. Prodotti ben fatti, per carità. Ma privi dell’imprevisto, del ribaltamento di prospettive, tratti distintivi nostrani.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Simone Annicchiarico)