Pubblicato il 13/01/2015, 15:33 | Scritto da La Redazione

ANDREA TIDONA: “‘RAGION DI STATO’ È UNA SPY STORY DOVE FINALMENTE MI CIMENTO IN UN RUOLO D’AZIONE”

TVZOOM a colloquio con l’attore che nella fiction in onda stasera su Rai1 interpreta un ufficiale dei Servizi Segreti italiani impegnato in Afghanistan. Un’occasione ghiotta per dialogare con lui, parlando di carriera e progetti per il futuro.meta name=”news_keywords” content=”andrea tidona, ragion di stato, braccialetti rossi, raiuno

«Con Ragion di Stato per la prima volta mi cimento in un ruolo d’azione», commenta soddisfatto Andrea Tidona, tra i protagonisti della fiction diretta da Marco Pontecorvo, in onda stasera su Rai1. In effetti, gli mancava solo questo, per coronare un percorso da attore in cui le vite dei personaggi interpretati sono state una, nessuna e centomila. Vescovo. Carabiniere. Mafioso. Magistrato. Medico in Braccialetti Rossi. Gregario de Il giovane Montalbano. Tidona, siciliano d’origine, una robusta carriera teatrale nella Milano dei fermenti culturali degli anni ’70 («Che ricordi bellissimi mi ha lasciato Milano! Una città ricca di idee, vulcanica. Le manifestazioni, i concerti, le partite viste a San Siro. Un’epoca che non tornerà più») è un volto conosciuto e rassicurante della fiction nostrana. Mai protagonista assoluto, eppure sempre talentuoso in ruoli di prestigio.

Ragion di Stato arriva all’indomani dei tragici fatti di Parigi. Una fiction tremendamente attuale.

«Drammaticamente attuale. Parla dei contrasti sul modo di gestire i rapporti col mondo mediorientale e col fanatismo. Interpreto la parte di un comandante dei Servizi Segreti italiani in Afghanistan. La sceneggiatura si muove su un terreno delicato. Da un lato, l’approccio diretto e veemente della CIA e degli americani. Dall’altro, la via scelta dai Servizi italiani, in equilibrio tra le esigenze di cooperazione con la coalizione e la necessità di scegliere una linea morbida per tutelare l’incolumità dei propri soldati. Senza contare le azioni di spionaggio, mediante le quali nessuno degli agenti operativi può sentirsi davvero al sicuro».

Al suo personaggio non sono state risparmiate scene d’azione.

«Era ora. Mi sono finalmente tolto la giacca e la cravatta e ho calcato la mano su una parte più action, tirando fuori il bambino che è in me, in un certo qual modo. Un impegno duro, faticoso. Tante scene sono state provate più volte, malgrado i tempi contingentati di produzione».

Che cosa può anticipare della sua vicenda?

«La storia si svolge tra Roma e Kabul. Il mio personaggio viene sequestrato in Afghanistan, c’è una trattativa. Non è un ruolo particolarmente esteso, ma ho accettato di buon grado perché, oltre all’affresco da spy story di cui si parlava, mi ha fatto piacere lavorare con Marco Pontecorvo».

Si è preparato in modo specifico per sostenere la parte?

«I tempi di produzione erano contingentati, per quanto riguarda l’allenamento fisico mi sono affidato alle mie piccole ritualità quotidiane che mi tengono in forma. Quanto alla documentazione, ho letto molti libri sull’argomento. Ai tempi della fiction Nassirya ho avuto l’opportunità di interpellare dei carabinieri operativi in Iraq e di attingere dalla loro esperienza. In questo caso, no. Qui si tratta di Servizi Segreti. Che restano segreti, appunto».

Quali sono le ritualità quotidiane che la tengono in forma?

«Vittorio Gassman diceva che, per fare l’attore, contano tre cose: il fisico, il fisico, il fisico. Lo ribadiva per sottolinerare l’importanza della preparazione a sostenere scene dure e tour estesi. Io abito in un paesino del Viterbese. Approfitto della natura per farmi quotidianamente una camminata sostenuta di circa un’ora nei boschi. Mi godo il panorama, rifletto, penso. E, grazie al movimento, posso concedermi qualche trasgressione alimentare, io che sono una buona forchetta. A casa svolgo qualche esercizio per alleviare i miei problemi alla schiena. L’età avanza, del resto».

Un altro suo ruolo televisivo di grande successo è quello del medico di Braccialetti Rossi.

«Un ruolo stimolante. Mi sono confrontato con una parte delicata. Siamo abituati a immaginare i medici come persone asettiche, prive di coinvolgimento nei confronti dei pazienti. Salvo poi criticarli quando si imputa loro di non essere riusciti a salvare un malato. Ho scoperto invece che c’è un mondo di emozioni che li riguarda e li coinvolge. Il mio personaggio lo dimostra: è umile, attento alla dimensione umana del suo lavoro. Capace di porre il giusto distacco dall’ambiente che lo circonda, ma solo per svolgere al meglio il suo mestiere».

Braccialetti Rossi, che tornerà con una nuova stagione, è un successo soprattutto tra i giovani.

«Mi ha colpito essere fermato per strada dai giovani. Significa che ho rappresentato un riferimento concreto. Un aspetto molto bello e gratificante».

Anche le serie tv si dice siano un riferimento concreto per la rappresentazione del reale. Forse quelle americane più di quelle italiane.

«Vero. Oggi le serie tv sono più efficaci del cinema. Il cinema hollywoodiano punta sugli effetti speciali, quello italiano, salvo rare eccezioni come il film su Leopardi con Elio Germano, sulle commedie generazionali. L’alta introspezione narrativa in tv è affidata ai serial. Negli USA hanno grandi mezzi e ottengono risultati straordinari. Non a caso gli attori più popolari fanno a gara per essere scritturati».

C’è stato un ruolo che, oltre a renderla popolare, le ha cambiato la carriera?

«Quello del pittore Stefano Venuti ne I cento passi. Prima di allora non mi interessavano più di tanto i ruoli per la tv o per il cinema. Venivo dal teatro, ho lavorato con Strehler e con i più grandi. Ai casting delle fiction, leggevano il mio curriculum e storcevano il naso: non amavano troppo gli attori teatrali, assecondando quella cretinata clamorosa tutta italiana che sono i compartimenti stagni. Poi Marco Tullio Giordana mi ha dato fiducia, facendomi lavorare con lui sia ne I Cento Passi, sia ne La meglio gioventù. E l’atteggiamento delle produzioni nei miei confronti è cambiato radicalmente».

Un attore è un attore a prescindere dal contesto in cui recita.

«Ma certo. Come accade in Inghilterra o negli USA. I compartimenti stagni sono una stupidaggine. L’attore cerca l’intensità, la forza, la capacità interpretativa. La diversità lo ingolosisce e lo sfida. Specie nel cinema, che, ricordiamolo, non è realismo, è la più grande finzione vivente, al servizio di un’interpretazione».

Ora che ruolo le piacerebbe interpretare?

«Qualcosa di nuovo. Magari un reietto. Un barbone. Oppure una parte brillante, comica, come mi è capitato ne Il 7 e l’8 con Ficarra e Picone. A teatro, invece, vorrei ritrovare la brillantezza dei grandi personaggi di Moliere».

Che cos’è il teatro, per lei?

«Bottega. Puro artigianato. La macchina presa è un supporto che favorisce la finzione. Il teatro invece è qualcosa di diverso. Per questo sono convinto che debba cercare di offrire al pubblico qualcosa di peculiare, differente rispetto al cinema o alla tv. Non deve essere un parcheggio per divi in disarmo. Il teatro è allenamento, fatica. Diceva Ernesto Calindri che l’attore teatrale non deve smettere di studiare mai, nemmeno a casa. Bisogna farsi trovare sempre pronti. Tirando fuori emozioni in una rappresentazione inimitabile. Penso alla tragedia: è uno spettacolo fatto di voci, di sensazioni viscerali. Quelle voci non devono essere amplificate da microfoni o da strumenti tecnologici. Devono nascere dall’intensità della rappresentazione».

Il teatro con cui è nato ha un luogo geografico che ne rappresenti l’essenza?

«Milano. Milano è la città che mi rappresenta. Lo dico da siciliano. Ma non la Milano di oggi. Ho in mente la Milano degli anni ’70, dei fermenti culturali, vulcanica nelle idee e nelle proposte. Ho vissuto 14 anni all’ombra della Madonnina. Ricordo le manifestazioni, i concerti, le partite viste a San Siro. I milanesi. Gente discreta, non fredda. Se conquisti la fiducia di un milanese, lui ti dà il cuore».

Era partito alla volta di Milano per fare l’attore?

«A mio padre dissi che andavo a studiare ingegneria al Politecnico. Lui avrebbe avversato la carriera di attore. Preferiva qualcosa di più tangibile, solido, come tutti i piccolo borghesi. Per 6 anni non ci siamo quasi parlati, quando mi sono presentato col diploma di accademia in mano. Poi si è ricreduto, constatando i riscontri positivi del mio lavoro».

Di Milano conserva solo ricordi positivi?

«Non solo. A 34 anni stavo per mollare tutto. Gli aspetti burocratici del mestiere, il dovermi confrontare talvolta con impresari ambigui, per certi versi squallidi, mi mandava su tutte le furie. Dicevo sempre quel che pensavo. Senza paura. E finivo per litigare spesso».

Dunque se non avesse fatto l’attore avrebbe fatto l’ingegnere?

«Non è detto. Anche il mestiere del camionista mi affascinava. Questo perché lo legavo a un’idea romantica del concetto di viaggio. Oppure il mestiere di cuoco. Sono un discreto chef dilettante».

Perfetto. Oggi la tv ha nobilitato gli chef.

«Fin troppo. In questo ha ragione Umberto Eco: siamo tutti o apocalitti o integrati».

Tornerà a vivere a Milano?

«Alla mia età, si comincia a riscoprire il gusto per le radici. Il mio futuro sarà nella mia Sicilia».

 

Gabriele Gambini

(Nella foto Andrea Tidona)