Pubblicato il 30/10/2014, 19:31 | Scritto da La Redazione

WILLIAM NICHOLSON: “VI RACCONTO IL MESTIERE DI SCENEGGIATORE”

WILLIAM NICHOLSON: “VI RACCONTO IL MESTIERE DI SCENEGGIATORE”
Dalla nuova serie a cui sta lavorando, intitolata “Maphja”, agli script hollywoodiani di “Unbroken” e de “Il Gladiatore”: lo sceneggiatore britannico ha tenuto una lezione all’Università Cattolica di Milano, dialogando con TVZOOM circa il difficile mestiere di autore per il piccolo e grande schermo.meta name=”news_keywords” content=”william nicholson, maphja, il gladiatore, unbroken Aria affabile e compassata, […]

Dalla nuova serie a cui sta lavorando, intitolata “Maphja”, agli script hollywoodiani di “Unbroken” e de “Il Gladiatore”: lo sceneggiatore britannico ha tenuto una lezione all’Università Cattolica di Milano, dialogando con TVZOOM circa il difficile mestiere di autore per il piccolo e grande schermo.meta name=”news_keywords” content=”william nicholson, maphja, il gladiatore, unbroken

Aria affabile e compassata, tratti somatici tipicamente britannici, William Nicholson è un distinto sessantaseienne che si presenta all’Università Cattolica di Milano snocciolando le certezze puntellate nei decenni di militanza come autore di sceneggiature di film e serie tv (Shadowlands, Il Gladiatore, Elizabeth:the golden age, Unbroken): la scrittura per romanzi è un confronto quotidiano con se stessi sorretto da libertà creativa, la scrittura su commissione per il grande e piccolo schermo è invece subordinata a una nomenclatura ingegneristica fatta di business, regole d’equipe, tentativi, fallimenti, riscritture.
L’occasione è ghiotta: lo scrittore e sceneggiatore apre la settima edizione del Master in scrittura e produzione per fiction e cinema, inserito nell’offerta dell’Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo (Almed) dell’Ateneo milanese.
È opinione diffusa ritenere che le serie tv, in quest’epoca, abbiano l’appalto nel racconto della contemporaneità più dei film per il cinema.
«La lunga serialità dà dei vantaggi allo sceneggiatore. Consente di focalizzarsi sui dettagli a lungo termine, privilegia l’intreccio narrativo, si avvicina alla forma del romanzo, non è asservita alle esigenze di spettacolarizzazione immediata, come invece accade ai blockbuster hollywoodiani. Le nuove tecnologie dei media contribuiscono alla diffusione di questi formati e giustificano gli alti investimenti intorno a essi».
Si può arrivare a dire che la lunga serialità rispetti maggiormente il mestiere dello sceneggiatore?
«Posso rispondere con una metafora: le esigenze di spettacolarizzazione di un film consentono agli effetti speciali di sopperire a deficit di scrittura. Esplosioni, grandi scene d’azione costituiscono un’attrattiva per il pubblico che si reca al cinema. Ma io sono convinto che, più delle esplosioni fine a se stesse, alla gente interessino le storie dei protagonisti coinvolti in quelle esplosioni. L’approfondimento delle storie, possono crearlo solo gli sceneggiatori. In questo senso, nella dimensione seriale, il mio mestiere gode di maggior attenzione».
Sta lavorando a qualche prodotto seriale, attualmente?
«Sì, anche se non posso dire molto, al momento. Si tratta di una serie dal titolo Maphja. Al centro del racconto, c’è l’ascesa degli oligarchi della finanza russa a cavallo tra i primi anni ’80 e il 2000. Una storia in cui gangster, affari, politica e denaro si mescolano in un affresco che copre un arco temporale ampio. Lo script non potrebbe mai essere adattato per il cinema, proprio per la sua varietà argomentativa».
I temi ricorrenti sui quali basa i suoi script.
«Dio, sesso, rapporto uomo-donna, rappresentazione della realtà, dinamiche familiari nelle loro molteplici declinazioni. Sono elementi ricorrenti che coinvolgono il pubblico».
In questo senso, la scrittura su commissione per lo schermo ha aspetti diversi rispetto alla narrativa libraria.
«Una sceneggiatura per il grande o piccolo schermo è business. Non è arte. E’ sottoposta a dinamiche commerciali imprescindibili. Quando scrivo un romanzo, lo faccio per me stesso e scelgo da solo i miei riferimenti, assumendomi dei rischi. Con i film, è diverso. Il mestiere di sceneggiatore, però, è di grosso aiuto a quello di scrittore: mi permette di confrontarmi con i gusti del pubblico, di subire critiche, di limare i lati pretenziosi e individualisti tipici del romanziere. E poi, una sceneggiatura per il cinema paga molto di più di un libro, particolare non trascurabile».
La sua carriera di sceneggiatore è segnata da un intenso rapporto con le produzioni blockbuster di Hollywood.
«Le dinamiche hollywoodiane sono dure. A volte poco comprensibili. Bisogna farci l’abitudine. Accettando anche le eventuali delusioni conseguenti».
Un esempio di ciò?
«Di recente ho partecipato alla sceneggiatura di Unbroken, film di Angelina Jolie in uscita a Natale. Il primo sceneggiatore contattato è stato Richard LaGravenese. Il suo compito era di ridurre a pellicola il libro della Hillebrand. La trasposizione cinematografica delle vicende del protagonista, Louis Zamperini, prigioniero nella Seconda Guerra Mondiale, avrebbe dovuto concludersi con il suo ritorno a casa. Tuttavia il finale non convinceva i produttori. Così sono stato contattato io, per ampliarlo. Ho pensato a un espediente narrativo che approfondisse il lato psicologico dell’eroe: Zamperini che ritorna dalla guerra e diventa schiavo delle sue ossessioni, continua a immaginare davanti a sé il soldato giapponese suo carnefice durante il conflitto».
Le sue modifiche sono state accettate?
«La produzione ne era entusiasta. All’ultimo momento, però, la Jolie ha preferito affidare il copione ai fratelli Cohen, suoi amici di lunga data. Non ho più saputo nulla, fino a quando non ho constatato che la parte da me inserita era stata tagliata. Cose che possono capitare spesso. Io figuro comunque nei crediti del film, perché le regole di Hollywood impongono di accreditare tutti i partecipanti alla realizzazione».
In questo senso, una figura importante per il mestiere di sceneggiatore è quella del rewriter, che si occupa della riscrittura dei copioni in corsa.
«E’ un po’ come il medico di pronto soccorso, interviene per bilanciare gli aspetti degli script all’ultimo momento, adattandoli alle esigenze di produzione».
Uno dei grandi successi della sua carriera è stato Il Gladiatore.
«Ho lavorato per 15 settimane a stretto contatto col set. Avevo un mio camper durante le riprese. Ogni giorno pranzavo col regista, scrivevo una scena, la vedevo realizzata dal vivo, massimizzandone la potenzialità. Di sera ero in costante contatto telefonico con Los Angeles. Sono stati giorni molto intensi. Non sono mancati gli imprevisti, specie quando è mancato improvvisamente uno degli interpreti, Oliver Reed. L’evento ci ha costretti a ulteriori modifiche finali. Il livello di stress per noi è stato elevato, ma compensato dall’ottima riuscita del prodotto».
C’è una notevole differenza anche tra il lavorare per una major e per una produzione indipendente.
«Nelle produzioni indipendenti, l’opinione dello sceneggiatore è maggiormente considerata. Ma i budget delle major consentono poi di realizzare i progetti con maggior costanza».
Tra poco terrà la sua lectio magistralis. Che cosa consiglia agli studenti che desiderano intraprendere il suo mestiere?
«Porterò la mia esperienza professionale. Chi scrive non lo fa per puntare alla gloria, pur avendo l’ambizione che i suoi testi giungano al più ampio numero di persone possibile. Scrivere significa: confrontarsi con il proprio lavoro quotidianamente, con rigore, metodo, ma senza esserne schiavi, essere curiosi sempre nei confronti del mondo, non temere di essere giudicati, sopportare il peso dei fallimenti, le modifiche in corsa dei propri progetti. Cercare di dare un ordine al caos del mondo. Sono cose che alla mia età si comprendono meglio rispetto a quando si è giovani. Per certi versi, penso che la mia età sia tra le più feconde, per chi affronti questo mestiere, accettandone gli imprevisti».

 

Gabriele Gambini

(Nella foto William Nicholson)