Pubblicato il 30/09/2014, 14:33 | Scritto da La Redazione

DAVIDE MENGACCI: “FACCIO CULTURA POPOLARE CON LA TV. NON AMO I REALITY E I TALENT DI OGGI”

Il conduttore è tornato dal lunedì al sabato alle 10.45 su Rete 4 con “Ricette di famiglia”, striscia di gastronomia e riscoperta del territorio, affiancato da Michela Coppa. TVZOOM l’ha intervistato, approfittando dell’occasione per fare un bilancio della situazione televisiva odierna.meta name=”news_keywords” content=”davide mengacci, rete 4, ricette di famiglia

Non ci sono sfide all’ultima forchetta tra aspiranti chef. Non ci sono verdetti inesorabili e fornelli da avvicinare con rituale riverenza. C’è però la gastronomia, usata come leva per fare cultura popolare, nelle Ricette di famiglia di Davide Mengacci, dal lunedì al sabato alle 10.45 su Rete4. Affiancato da Michela Coppa, Mengacci riparte alla riscoperta del territorio nazionale e delle sue peculiarità, in un itinerario battuto fin dagli esordi di Fornelli d’Italia. Con una parola d’ordine: interazione partecipata e divertita assieme al pubblico.
Oggi la cucina è declinata in tutte le sue forme televisive, con la miriade di format, di talent e di tutorial sull’argomento.
«Ciascun format di gastronomia ha delle caratteristiche peculiari. La somiglianza tra essi è definita dall’argomento trattato, un po’ come i vari giochi a quiz, che hanno in comune il fatto di essere dei quiz. La nostra formula è consolidata, da noi la gastronomia è solo un grimaldello».
Un grimaldello per…?
«Per continuare a fare quel che abbiamo fatto fin dai tempi di Fornelli d’Italia, nel 1998 e, ancor prima, con La domenica del villaggio: cultura popolare attraverso il mezzo tv. Le stagioni successive hanno mantenuto schemi consolidati, pur arricchendosi di piccole modifiche, a cominciare dai titoli».
Fare cultura popolare significa privilegiare la forma racconto mettendo in luce aspetti inediti del territorio visitato.
«Questo è il motivo per cui mantengo invariato l’impianto di base del programma. La tv non è il mezzo adatto per fare cultura alta, per fare quello ci sono altri media. La cultura popolare invece si presta benissimo al racconto. Mostrare al grande pubblico gli aspetti inediti di un territorio: l’artigianato, il turismo, le filiere produttive. Le ricette fanno da filo conduttore».
“Non sono un cuoco, sono un uomo che ama cucinare”, è solito dire.
«Confermo. Le mie ricette sono giocate, divertenti. Quando cucino cerco di coinvolgere il pubblico che è con me e il pubblico a casa. I francesi sostengono che “cucinare sia un gioco da bambini”. Hanno ragione. Fermo restando che, in Ricette di famiglia, permane anche la parte squisitamente tecnica, rappresentata dallo chef Fabio Campoli».
C’è qualcosa in comune anche con l’idea di tv di servizio.
«No, la tv di servizio è qualcosa di diverso: è la tv del maestro Manzi, tanto per fare un esempio. Io non punto a far passare delle erudizioni attraverso le mie trasmissioni. Non pretendo che il pubblico conosca la data dello sbarco dei Mille. Posso però mostrare dove lo sbarco è avvenuto, raccontando il territorio, divertendomi e divertendo».
A proposito di storia della tv. Di recente, in alcuni articoli, mi è capitato di leggere appelli per ripensare e riattualizzare format storici del passato. È stato fatto anche il nome de Il pranzo è servito, da lei condotto.
«Non credo funzionerebbe, oggi. È molto difficile riattualizzare un programma tv, declinandolo secondo criteri di contemporaneità. Penso a un esempio pertinente: dal 2012 sto riproponendo Scene da un matrimonio, con poche puntate all’anno in una formula rinnovata. Mi accorgo però che il format non ha più il peso specifico di un tempo. I gusti cambiano, si evolvono».
Scene da un matrimonio ha anticipato diversi format attuali sul tema.
«È stato il primo reality della storia, se lo si volesse definire alla luce di oggi, per quanto il termine “reality”, declinato secondo le tendenze attuali, non mi entusiasmi».
Non le piacciono i formati reality e talent odierni?
«Non li amo. Soprattutto i reality che hanno imperversato nei primi anni del Duemila. Anche se io non sono uno spettatore televisivo così attendibile».
Guarda poca tv?
«Guardo tutte le prime puntate dei format nuovi in uscita, a scopo professionale. Per il resto, come fruitore, sono costante soltanto con i programmi di Piero e Alberto Angela e con quelli di History».
Ripensando alla sua carriera e ai format condotti, che bilancio ne trae?
«Ho fatto di tutto. Non mi sono mai cimentato in trasmissioni sportive o musicali perché manco della competenza adeguata. Per il resto, sono soddisfatto dei prodotti su cui ho lavorato: una tv che considero dignitosa e della quale non mi vergogno. Non è poco, visto che la tv, a volte, propone cose imbarazzanti».
Una tendenza della tv odierna è quella di sostituire i conduttori di stampo classico con professionisti provenienti da altri settori, prestati alla conduzione. Il ruolo del conduttore è minacciato?
«A dirla tutta, la contaminazione di non professionisti in tv, c’è sempre stata. Penso ancora a Manzi. Il fenomeno non è nuovo e non minaccia il conduttore. Vero è che la tv di oggi, con i suoi ritmi veloci e l’ampliamento dell’offerta, ha tempi frenetici. Un giovane conduttore rischia di bruciarsi».
Le qualità imprescindibili per provare a diventare conduttore?
«Il talento comunicativo è alla base. Senza quello, è inutile tentare. Poi, bisogna tenere a mente un fatto: un giovane conduttore, quando inizia, si limita a recitare un copione prestabilito. Non ha nessuna possibilità di condizionare il programma. Mano a mano che acquisice competenza , può incidere maggiormente. Oggi ci sono strumenti che aiutano a mettersi in luce, penso alla Rete. Ai miei tempi, no. Quando ho iniziato, venivo da un’esperienza come pubblicitario. Curavo tutti gli aspetti delle mie candid camera, ho imparato una serie di nozioni tecniche che apparentemente potevano essere superflue per i miei scopi, rivelatesi utili a formare una figura professionale completa».
Sua moglie è regista, uno dei suoi figli, Rudy Zerbi, frequenta con successo la tv. Parlate mai di lavoro in famiglia?
«Questo è un aspetto da evitare sempre. L’ho imparato a mie spese. Con mia moglie ho lavorato tra l’88 e il ’92. Ci portavamo a casa le problematiche professionali, così abbiamo desistito. Con Rudy non parlo mai di lavoro. Non ha bisogno di confrontarsi con me. E poi, viene da un ambiente, la musica, dove è molto più competente di me».

 

Gabriele Gambini

(Nella foto Davide Mengacci)