Pubblicato il 31/08/2014, 16:31 | Scritto da La Redazione

RASSEGNA STAMPA – PIPPO BAUDO: «IO, LE TRAME P2 E MEDIASET COME SING SING»

Da una chiacchierata con Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Pippo Nazionale si racconta in una lunga intervista. «Luchino Visconti? Era maniacale. Grillo? Ho il sospetto che ora sia Casaleggio-dipendente». E che bordate ad Antonio Ricci…

 

Rassegna Stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 14/15, di di Malcom Pagani e Fabrizio Corallo

 

“Io, le trame P2 e Mediaset come Sing Sing”

Il Pippo nazionale, 54 anni di tv e non solo: “Luchino Visconti? Era maniacale. Grillo? Ho il sospetto che ora sia Casaleggio-dipendente”. E che bordate ad Antonio Ricci… Pagani e Corallo 1 pag. 14 15 

Dalla fame all’eternità

Le trame P2, l’inferno Mediaset e la Rai: a 78 anni non mi vergogno più

La volta che divenne amico di Aldo Fabrizi: “Da quando era morta sua moglie si era ritirato in due stanze. In una dormiva, nell’altra cucinava. Dodici pentole sul fuoco, 12 diversi tipi di pasta in ogni contenitore” e quella in cui devastò la Fiat 500 acquistata “con 36 cambiali perché lungo com’ero spinsi il pedale sbagliato e finii contro un muro”. Guidando senza soste dal giugno 1936, Pippo Baudo ha fatto il giro largo. Più di 100 programmi, 13 Festival di Sanremo, 54 anni in Rai. Oggi sembra non esserci più posto, ma al riflesso del rimpianto Baudo continua a non concedersi: “Potrei mettermi davanti allo specchio ogni sera e ricordare cosa ho fatto ieri, ma preferisco pensare a chi intervistare domani”. Gli eredi non hanno nome: “Ma non ho la presunzione di sostenere che non esistano, dico solo che anche se nell’azienda in cui ho lavorato per mezzo secolo non ho più un ruolo centrale, in questa Rai potrei continuare a stare benissimo anche io”. A 78 anni, con i capelli bianchi: “Non li tingo, superato l’atavico complesso della calvizie non mi vergogno più di niente” e le vignette alle pareti, Baudo non si è sempre sentito in un fumetto. Gli inizi, ai tempi della fame: “Mio padre Giovanni, con 6 fratelli, l’aveva sofferta. I maschi erano andati al fronte e lui, rimasto a Caltagirone, abbandonò le velleità scolastiche per coltivare il suo pezzo di terra. Andava anche di notte. Zappava, irrigava e poi leggeva con il lume a petrolio. Papà era cresciuto a Caltagirone sotto il magistero di Don Sturzo e aveva studiato con Mario Scelba. Un giorno, quando ero già famoso, ricevetti una telefonata dal politico. Mi volle vedere: “Ho un dubbio, può venire in Via Barberini?”. Mi vide e si commosse. Per alcuni Scelba è stato il cieco condottiero di una banda di manganellatori, ma la storia ha le sue sfumature e nessuno può dire cosa sarebbe successo se l’Italia fosse finita sotto l’influenza sovietica. Anche se i russi ora arrivano qui colmi di rubli e Marx, convinto che l’Italia sarebbe un giorno stata un perfetto pensionato per i lavoratori di quel paese, vede finalmente realizzarsi la sua profezia, quelli erano tempi duri”.
Che lei affrontò da democristiano.
Di sinistra, ma pur sempre democristiano. Non rinnego nulla, ma vedo che qualcuno fatica a riconoscere a De Gasperi la dimensione di padre della patria. Non mi stupisce, siamo in Italia. Altrove sarebbe impossibile. Provate ad andare in Francia e a toccare De Gaulle. “L’Italia non è un paese povero, è un povero paese” sosteneva il Generale.

Povero sicuramente. Non a caso il film della mia vita è Il cammino della speranza di Germi. Vicenda di disgraziati, di minatori in fuga da una Sicilia allo stremo. Ho ritrovato il misero libro paga di mio nonno, segretario comunale a Militello. Le tracce dell’economia domestica nella grafia minuta: “Dati 50 centesimi per anticipo soprattacchi a Rosina”, il quadro di un mondo in cui ogni tassello doveva andare al giusto posto.
Dopo la laurea lei andò a Roma.
Appena arrivato, mi recai al Sistina. Quel teatro era La Mecca, era Gerusalemme. Un posto magico, da pellegrinaggio. Il 3 ottobre con Enrico Montesano andremo in scena proprio in quello stesso luogo. Racconteremo la storia del Teatro, dell’Italia che scorreva al fianco dei capolavori di Garinei e Giovannini. Perché? Perché è una nuova sfida.
Sul palco lei salì presto.
A 6 anni, decidendo di rimanerci. In famiglia non avevamo tradizioni in tal senso e mia madre non dimenticava mai di rinfacciarmelo: “Giuseppe, tra i nostri parenti vedi forse cantanti o attori?”.
Avrebbe potuto diventare pianista. Secondo Berselli tra lei e i professionisti quasi non c’era differenza.
Mi piaceva andare a orecchio, ma il vero pianista è prima di tutto un buon lettore della partitura, poi un esecutore e solo alla fine un interprete. Comunque suono ancora, mi può fregare qualche tonalità difficile e al limite mi imbriglio perché la mano non è più svelta come prima. All’epoca, suonavo più di tre ore al giorno.

Allo spettacolo era destinato. Negli anni ’60 fece persino l’attore.
Saro Urzì, uno dei feticci di Germi, me lo diceva sempre: “Devi assolutamente fare un film con Pietro”. Gli davo del pazzo: “Non sono duttile e non tengo saldamente il ruolo tra le mani neanche in teatro. Al primo atto sono vecchio, al secondo ragazzino”. Turi Ferro, con il quale divisi a lungo il palco, mi odiava.
Solo per questo?
Ero alto e magrissimo, e a ogni apparizione ottenevo un applauso e una risata. Per uno come Turi, attore straordinario e vero guitto, ma veramente tanto guitto pur nel senso più nobile del termine, il dato era intollerabile. Quando diressi lo Stabile di Catania i ruoli si ribaltarono e mi resi conto che non mi sarei potuto permettere cedimenti. Avrei dovuto mandarlo a fare in culo anche senza ragione.
Altrimenti?
Sarei stato divorato. Se avesse intuito una mia debolezza sarebbe stata la fine. A tenere testa ai grandi personaggi, anche grazie all’empatia immediata con il prossimo che è uno dei miei pregi, imparai presto. Non tremai neanche di fronte a Luchino Visconti che era taciturno e molto, molto duro.
Come lo incontrò?
Grazie a Goffredo Lombardo della Titanus, un gran signore, generosissimo. Mi chiamò per curare la parte musicale dei canti tradizionali dei garibaldini siciliani ne II Gattopardo. Avrei dovuto rimanere una settimana e stetti 3 mesi trasformandomi in traduttore. Il film era stato girato in slang e al doppiaggio, rimettere in bocca a Burt Lancaster il linguaggio di Tomasi di Lampedusa fu un’impresa. Visconti era maniacale. In moviola faceva passare gli ‘anelli’ anche 13 volte. Pretendeva fosse d’epoca anche l’interno dei cassetti. Per lui Lombardo si rovinò.
Poi arrivò la televisione. Antonello Falqui, regista di varietà passati alla storia della tv ricorda un suo claudicante provino d’esordio.
Mi dispiace, ma Falqui ricorda male. Il provino andò benissimo tanto è vero che l’indomani iniziai a lavorare.

Dopo il provino, la prima vera occasione arrivò con Settevoci.
La Rai avrebbe dovuto trasmettere Rin Tin Tin, il nastro non arrivò e si decise di mandare in onda la puntata pilota. Nessuno si aspettava nulla e invece arrivò il successo. Ettore Bernabei, grande dirigente della Rai democristiana mi convocò: “Mettiamo Settevoci prima del Tg delle 13,30”.
Non mostrai il dovuto entusiasmo: “Direttore, ma a quell’ora non c’è nessuno, se lo replicassimo anche la sera?”. Lui riflettè e poi diede il suo assenso: “Lo mandiamo sulla seconda rete”.
Poco dopo, nel ’68, arrivò Sanremo. Dopo il Festival primigenio, ne condusse altri 12. Muovendomi per far entrare il Festival nel billboard internazionale dei grandi eventi musicali avevo escogitato un sistema eccezionale che persuase le Major a mandare ospiti super.
Dagli operai dell’Italsider di Genova in protesta alle invasioni di Cavallo pazzo, nei suoi Sanremo è accaduto di tutto.
Con Mario Appignani, alias Cavallo pazzo, avevo già avuto problemi durante una diretta da Piazza San Marco.
Era il 1991.
Allora il Festival di Venezia, a differenza delle meste premiazioni contemporanee, sapeva volersi bene. Cavallo pazzo salì sul palco, provò a parlare e a strapparmi il microfono. Venne portato via. Appignani però non si arrese. Qualche mese dopo, all’Hotel Royal, a poche ore dall’inaugurazione del Festival ligure trovo una sua lettera. “Caro Pippo sono a Sanremo, ci vediamo stasera sul palcoscenico”. Informo subito il questore di Imperia. Mi rassicura: “È sotto controllo, non può muoversi”. Un minuto dopo l’inizio me lo ritrovo a fianco. Non avevano controllato tanto bene.
Avvennero altri incidenti e la vulgata era sempre la stessa: “È tutto organizzato con la regia di Pippo”.
Non era organizzato proprio niente. Dopo Cavallo Pazzo venne un sedicente operaio che voleva buttarsi dalla balaustra.
Non era un operaio?
Ma quale operaio? Era un collaboratore della Coop, un ‘padroncino’, come si chiamavano ai tempi gli incaricati alle consegne delle merci. Lo avevano scoperto a rubare e lo avevano licenziato. Sfortunatamente lo sponsor di quell’edizione di Sanremo era proprio la Coop. All’idea che si scoprisse che l’aspirante suicida era un loro impiegato i dirigenti tremarono. Lo raggiunsi, lo abbracciai, lo portai giù e poi chiamai la moglie: “Suo marito è con me, stia tranquilla”.
Finì così?
Purtroppo sono fatto male, così mosso a compassione, presi mezzo milione di lire e glielo diedi. Fu la mia rovina. Mi inseguì per mesi sputandomi in faccia e chiedendomi altri soldi. Spontanea anche la protesta dei sindacati?
I poliziotti mi avvertirono: “Baudo, gli operai dell’Italsider hanno organizzato un treno speciale e verranno a Sanremo per bloccare il Festival”. Risposi irritato: “Perché vi rivolgete a me? È un problema di ordine pubblico, io faccio il presentatore”. Morale della favola: quasi non faccio in tempo a salire sul palco che scoppia il casino.
Vengono a dirmi che ci sono gli operai a premere sulle vetrate dell’Ariston. Con procedura anomala informo il pubblico della situazione, indosso l’impermeabile e mi butto nella bolgia. Lanciavano monete, mi gridavano “stronzo” “venduto”, “figlio dei padroni”. Chiedo il megafono al Commissario e siccome non avevano neanche quello, inizio a gridare: “Chi sono i rappresentanti della Trimurti sindacale?”. Alzano la mano in tre. Gli spiego che ho parlato del loro caso, ma non ci credono. Allora chiedo a uno di loro di chiamare la moglie perché gli desse conferma e a quel punto vedo le loro espressioni mutare. Mi dicono “grazie” e fanno per andarsene.
E lei?
Li ho portati sul palco, gli ho fatto spiegare le ragioni della protesta e in una pausa, dietro le quinte, il più grosso dei tre mi sorprende: “Baudo, adesso me lo fa un autografo?”. Fu un colpo al cuore. Pensai: “Perché mi vuoi pigliare per il culo?”.
Sia come sia, quello non perde tempo, tira fuori un portafogli rivestito di grasso, unto, sdrucito. Pesca tra le carte una tessera del Pci con la faccia di Togliatti e dice “Firma qui”. “Non posso” gli dico: “Per te questa tessera rappresenta qualcosa”. E lui, serio: “Anche tu da stasera”.
Era politica anche quella.
Anche se la politica non mi ha mai toccato, offerte di candidatura o affiliazione ne ho ricevute tante. Anche dalla P2.
Dice sul serio?
Li mandai a fare in culo. Quando scoprimmo che era coinvolto anche Gervaso, andai da Roberto, lo esonerai dalle interviste che faceva nel mio programma e chiamai direttamente l’ospite della domenica. Un luminare di Ferrara che aveva scoperto una cura per l’angina pectoris. Telefono, gli spiego la situazione e vado al punto: “Domenica, se non ha nulla in contrario, la intervisto io”. Lo sento titubare. Insisto: “Non si fida” chiedo. E lui, di getto: “Non ha capito, alla Loggia sono iscritto anch’io”. Rimasi come uno scemo, con il telefono in mano. Erano tutti della P2.
Offerte accettabili invece?
L’ultima da Romano Prodi per la mia Regione. Ma ho sempre detto no. La Sicilia è ingovernabile, sto leggendo proprio ora un meraviglioso libro di quel vero anarchico che è Pietrangelo Buttafuoco. Si intitola Buttanissima Sicilia. Magari a un siciliano vero può far male, ma se lo leggi capisci tante cose. Lo stesso mi accadeva con Sciascia a cui per spiegarsi bastavano uno sguardo o una frase. Gli chiesi quale posizione dovesse assumere un intellettuale nei confronti del potere e lui mi bruciò: “Sempre e comunque contro”. Aveva ragione. La funzione critica è indispensabile.
Nei confronti di Matteo Renzi sembra latitare.
È stato nominato senza elezioni, ma nessuno può escludere che le avrebbe vinte in ogni caso. Un giudizio su Renzi mi pare prematuro. Veniamo da tre governi un po’ così. Berlusconi ad esempio, ne vogliamo parlare? Ci avrà lasciato qualche brutta traccia Berlusconi o no? E Monti? Ci aspettavamo l’ira di Dio e invece, non è cambiato niente. Del povero Letta è inutile parlare, ha appoggiato il cappello, fatto quattro giri della piazza e poi è andato via. Ora c’è Renzi. Il ragazzo è sicuramente ambizioso e si ritrova un Paese in condizioni pessime. Prima di processarlo, aspettiamo.
Il suo vecchio amico Grillo non vorrebbe perder tempo.
Su Grillo faccio ragionamenti quotidiani. L’ho scoperto io, nel senso più autentico della parola. Faceva il cabarettista a Milano, non di successo devo dire, e andai a vederlo per caso nel teatrino La Bullona. Mi fermo all’ingresso, vedo un tipo e gli chiedo: “Quando inizia lo spettacolo” e quello: “Se entri tu anche subito”. Era Beppe. Mise in scena per un solo spettatore un’ora di puro talento. Lo portai subito in tv, a Luna Park, a Fantastico, a Sanremo. Lo consideravo un fratello, l’ho ospitato a lungo a casa mia, mi ha dato grandi soddisfazioni. Ora mi preoccupa.
Perché?
Ho il sospetto che sia Casaleggiodipendente e mi dispiace perché pur avendo portato in Parlamento ragazzi in gamba, si è votato al Niet indistinto. Come diceva Metternich, la politica è l’arte del possibile. Qualche sì, ogni tanto, lo devi dire.
Chiamarsi fuori è troppo semplice.
Nel Fantastico edizione ’86 lei e Grillo passaste momenti non felicissimi.
La battuta di Beppe sulla delegazione socialista in viaggio premio in Cina era straordinariamente bella, ma non passò inosservata. Suonava più o meno così: “Se tutti i socialisti sono a Pechino, in Italia chi ruba?”. Grillo venne allontanato e recitò da martire, ma in Rai tornò prima di me. Io fui cazziato da Craxi dopo 4 ore di anticamera in via Del Corso: “Lei è quello che fa fare battute sui socialisti?” e poi fatto fuori.
Il peggio doveva ancora arrivare?
Arrivò con Enrico Manca. Diede un’intervista a Padellaro del Corriere della Sera dicendo basta alla Tv Nazional popolare. La misura era colma e io, reduce da successi notevoli, eccitato, andai un po’ sopra le righe: “Caro Manca, invece di fare interviste provi a fare il Presidente. I miei prossimi spettacoli saranno regionali e impopolari”.
A quel punto giunse Berlusconi.
Mi corteggiò assiduamente e nel corteggiamento, Berlusconi non aveva rivali: “Con La Rai è finita, vieni da noi”. L’offerta, 50 miliardi di lire in 5 anni per fare il direttore artistico, era ai limiti della moralità. Accettai e andai all’inferno. Mi ritrovai assediato, cozzai con capi e capetti, affrontai guerre pazzesche.
Si ritrovò a Saigon?
Magari. Mi ritrovai a Sing Sing. Tranne Sandra Mondaini, Raimondo Vianello e, dopo un equivoco iniziale, Mike Bongiorno, ebbi contro praticamente tutti. Persino Corrado, col quale pure avevo antichi rapporti, mi mostrò freddezza. Di lui mi riferivano battute acide. “Vorrebbe insegnare la tv a noi che siamo i suoi maestri”. Erano i miei maestri, era vero, ma non avevo mai covato quell’intenzione. Il fuoco di fila più spietato comunque me lo riservarono Costanzo che si riteneva il padrone del vapore e Ricci.
Anche con Antonio Ricci era stato amico.
Insieme a Grillo era stato mio ospite a Morlupo per un anno. Antonio, ex comico fallito poi furbamente convertito all’autorialità, mi doveva moltissimo. La sua tv oggi è una ripetizione di temi consunti e non significa più nulla, ma all’epoca, benché le opinioni sulla paternità di Drive In non siano univoche e qualcuno adombrò addirittura il plagio di un vecchio programma di Giancarlo Nicotra, l’esperimento fu deflagrante. L’accento sulle nudità femminili di Antonio, poi, era inevitabile. Berlusconi ordinava “nudo, nudo, nudo” e Antonio eseguiva.

Con malcelato orrore degli intellettuali.

Moravia si vantava di non avere l’apparecchio televisivo. Il grande errore di tutti gli intellettuali d’Italia è stato snobbare la tv. Snobbandola hanno permesso che si rovinasse. Gli intellettuali sono conservatori, il nuovo li sgomenta.

La sua storia con la Rai è finita con la contestata conduzione del programma sui 150 anni dell’Unità d’Italia in coppia con Bruno Vespa?
Non lo so. So che Vespa non voleva fare quel programma, lo considerava una sventura e si dimostrò nervoso fin dall’inizio. Il suo collaboratore tuttofare, Claudio Donat-Cattin, mi offese a morte e litigammo.

Le diede del mafioso.

Mi puoi dire di tutto, anche che sono stato tradito dalle donne perché è una cosa che capita e che accetto. Mafioso, no. A me la Mafia ha fatto saltare la casa di Santa Tecla, io la Mafia l’ho affrontata duramente, fin dai tempi dell’omicidio di Rocco Chinnici. Sospesi il Festival di Taormina e la risposta dell’onorata società fu minarmi la casa. Andai in tv e chiarii che l’avrei ricostruita da capo. E a Donat Cattin, di cui conoscevo il padre stimandolo molto, mostrai il mio disprezzo sputando per terra. Non in faccia come disse lui, perché il gesto non mi appartiene.
Cosa si aspetta da domani?
Anche di morire sul palco come Chaplin. Il finale di Luci della ribalta non mi dispiace, ma senza enfasi. Senza grancasse.