Pubblicato il 29/03/2014, 13:31 | Scritto da La Redazione

MASSIMILIANO GALLO: «”LE MANI DENTRO LA CITTÀ” NON RACCONTA DI EROI, MA DI POLIZIOTTI CHE NON NASCONDONO LA LORO UMANITÀ»

MASSIMILIANO GALLO: «”LE MANI DENTRO LA CITTÀ” NON RACCONTA DI EROI, MA DI POLIZIOTTI CHE NON NASCONDONO LA LORO UMANITÀ»
  Intervista a uno dei protagonisti della fiction in onda al venerdì sera su Canale 5: l’attore partenopeo si è confidato con TVZOOM, raccontando i dettagli delle sue esperienze passate e presenti, non nascondendo auspici per il futuro.meta name=”news_keywords” content=”massimiliano gallo, le mani dentro la città, per amore del mio popolo, canale 5, rai1“ La […]

 

Intervista a uno dei protagonisti della fiction in onda al venerdì sera su Canale 5: l’attore partenopeo si è confidato con TVZOOM, raccontando i dettagli delle sue esperienze passate e presenti, non nascondendo auspici per il futuro.meta name=”news_keywords” content=”massimiliano gallo, le mani dentro la città, per amore del mio popolo, canale 5, rai1

La maschera del bene indossata a poca distanza dalla maschera del male. Sotto, il volto di attore consumato, pronto a salire sul predellino del treno in corsa che lo conduce a nuove sifde professionali. Perché non esistono solo ruoli brillanti o solo ruoli drammatici, come non esistono compartimenti stagni, nella recitazione: esistono attori bravi o attori mediocri. È quel che sostiene Massimiliano Gallo, napoletano classe ’68, qualche settimana fa su Rai 1 nel ruolo di camorrista con la fiction su Don Diana Per amore del mio popolo, e ogni venerdì su Canale 5 in quello di sbirro integerrimo ne Le mani dentro la città.
Nella fiction su Don Diana ha interpretato un camorrista con i piedi ben piantati nel territorio campano. Ne Le mani dentro la città, un poliziotto in lotta contro i tentacoli della ‘ndrangheta, in pieno territorio milanese.
«Due ruoli agli antipodi, lavori completamente diversi».
Cominiciamo dal primo.
«Nella fiction su Don Diana ero un boss con un rapporto controverso col proprio figlio illegittimo. La dimensione umana e affettiva del personaggio, mi ha permesso di dargli una caratterizzazione profonda. Ho cercato un percorso interiore che potesse caratterizzare in modo coerente il suo essere “cattivo”. Non volevo la caricatura di un personaggio negativo. Volevo rappresentare un malavitoso in carne e ossa, con i suoi lati umani, e una spiegazione precisa delle sue scelte di vita. Spiegazione che non lo salva. Ma lo racconta».
Elementi che si possono trovare anche in Gabriele Ercolani, il suo poliziotto in Le mani dentro la città.
«Con il regista Angelini, abbiamo concordato di non rappresentare il classico tutore della legge perfetto, senza macchia e senza paura. Volevamo un poliziotto normale. Un uomo che si confronta con la vita di tutti i giorni e i problemi del quotidiano».
Scelte compiute per evitare gli stereotipi?
«La lotta tra bene e male, tra buoni e cattivi, è il sale di molte sceneggiature. Credo sia importante non rendere questi aspetti macchiettistici, lavorando sulla costruzione umana dei soggetti».
In entrambi i temi si parla di mafia.
«In modo diverso. Da un lato, la camorra, organizzazione fortemente territoriale. Dall’altro, la ‘ndrangheta, che si è radicata dalla Calabria a Milano. Quando giravamo Le mani dentro la città, ci sembrava addirittura strano, parlare di un tema del genere in Lombardia. Poi sono arrivate le inchieste eclatanti. Si è capito che esiste una realtà con connotazioni precise. Un po’ come è accaduto con la camorra e con i casalesi dopo il libro di Saviano».
Entertainment e sensibilizzazione. Dunque si può?
«Quando affronti il tema delle mafie nei territori, è inevitabile indurre il pubblico a riflettere. Per amore del mio popolo raccontava un evento circostanziato e compiuto, che ha aperto risvolti su meccanisimi attualissimi. Le mani dentro la città prende spunto da fatti di cronaca, ma prova a raccontare un mondo ancora tutto in divenire».
Le mani dentro la città dosa sapientemente gli ingredienti action, continuando il filone di Squadra Antimafia.
«Il successo della fiction è merito soprattutto dell’occhio attento del regista Alessandro Angelini. Ha creato un mix equilibrato di azione e di introspezione umana e sociologica. Ha scavato nel profondo, offrendo qualcosa in più rispetto alla solita lotta tra bene e male, che non smette mai di affascinare il pubblico, come detto».
Che cosa accadrà al suo Gabriele Ercolani?
«Non ti svelo che cosa accadrà nelle prossime puntate. Però sottolineo l’aspetto portante del personaggio: è un ex poliziotto che ha fatto tanta azione, che ha promesso alla moglie di mettersi dietro una scrivania, in ufficio, per non rischiare e che, dall’incontro con l’ispettore Benevento, riscopre l’adrenalina delle indagini su strada».
Lei è ben calato nella dimensione fiction. Eppure la vedremo anche a teatro e al cinema.
«A teatro, in questo periodo, stiamo portando in scena Circo Equestre, con testo e musiche di Raffaele Viviani, regia di Alfredo Arias. Una coproduzione Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Teatro di Roma. Stiamo ottenendo ottimi riscontri, tra un anno porteremo lo spettacolo anche in Francia. La tematica portante è la malinconica solitudine dei circensi, in un racconto umano e appassionato».
Poi c’è il cinema…
«Al cinema sarò tra i protagonisti di Neve, per la regia di Stefano Incerti. E, a breve, inizierò a girare Perez, con protagonista Luca Zingaretti. Il regista è Edoardo De Angelis, regista di Mozzarella Stories».
Lei è figlio d’arte. Suo padre Nunzio è stato uno dei maggiori interpreti della canzone italiana e napoletana degli anni ’50, sua madre Bianca Maria ha recitato in Teatro e Tv prima di divenire una gallerista d’Arte. È fratello minore dell’attore Gianfranco Gallo e zio dell’attore Gianluca Di Gennaro.
«Ho respirato l’atmosfera del palcoscenico fin da bambino. Non ho mai avuto un Piano B, ho sempre saputo quel che volevo fare nella vita. E ho iniziato a farlo grazie a mia madre che, quando ha mollato il teatro per dedicarsi alla famiglia, ha allestito una piccola compagnia per bambini. Io avevo dieci anni. Ho iniziato così i miei primi ruoli da protagonista. Poi, appena finito il liceo, dopo soli 7 esami sostenuti all’università, ho deciso che mi sarei dedicato anima e corpo alla recitazione».
Che cosa le manca, nella sua carriera?
«Bacchetta magica alla mano, ti dico che vorrei lavorare con Sorrentino. Lui lo sa. E vorrei avere maggior libertà di scelta dei ruoli. Non che ora non ce l’abbia, ma mi piacerebbe, un giorno, avere il potere contrattuale necessario per prendermi un anno tutto per me e andare a studiare in America, approfondendo ulteriori lati del mio mestiere».
Un attore deve saper cadenzare le proprie apparizioni?
«Se può permettersi di farlo, sì. E’ quel che rimprovero ai grandi quando corrono il rischio della sovraesposizione».
Il segreto di un bravo attore.
«Padroneggiare i mezzi espressivi. Sulla base di un talento, sia chiaro. Sapersi calare in ruoli e contesti diversi. In Italia, per pigrizia, esistono ancora i compartimenti stagni di genere, tra tv, cinema e teatro. Ma il grande attore è quello che sa capire i diversi meccanismi espressivi e sa farli propri. Come accade in Inghilterra o in America, dove i grandi attori di teatro lavorano in tv e al cinema. Come è accaduto a Tony Servillo, da sempre ottimo attore di teatro, che ha colto la ribalta con il cinema, rendendosi riconoscibile al grande pubblico».
In Italia esistono i compartimenti stagni soltanto per pigrizia?
«Non solo. Manca un’efficace azione politica a supporto della cultura e della recitazione. Il cinema, in Italia, una volta era un’industria. Deve tornare a esserlo. Ma, perché ciò accada, è necessaria una pianificazione a lungo termine che prescinda dai piccoli interessi contingenti. Come accaduto in Francia».

 

Gabriele Gambini

(Nella foto Massimiliano Gallo)