Pubblicato il 28/01/2014, 18:03 | Scritto da La Redazione

LUISELLA COSTAMAGNA: «”GIOVANI A RISCHIO” MI HA EMOZIONATA E COINVOLTA. NON TEMO LE CRITICHE»

Da giovedì 30 gennaio su Crime Investigation (canale 117 Sky) arriva “Giovani a rischio”, programma basato sul format americano “Beyond Scared Straight”, che racconta con taglio da docu-reality il percorso riabilitativo di alcuni adolescenti americani entrati a contatto con realtà criminali. TVZOOM ha intervistato la conduttrice.meta name=”news_keywords” content=”luisella costamagna, giovani a rischio, crime investigation, sky, beyond scared straight

I giovani nati a cavallo di era analogica e digitale si ricorderanno i benevoli ammonimenti delle maestre d’asilo sull’onda della letteratura pedagogica: non dire bugie o ti crescerà il naso, non marinare la scuola frequentando cattive compagnie o diventerai un somarello, impara la lezione di quel burattino lavativo di Pinocchio e del suo degno compare Lucignolo. Preistoriche ramificazioni della retorica “collodiana”, dolci al palato della memoria ma stantìe nella realtà 2.0. 
Una realtà feroce e frenetica, specie negli USA, dove l’adolescente che si imbatte in strade criminali vede spalancarsi le porte del carcere. Non del Paese dei Balocchi.

Quella realtà d’oltreoceano, così lontana, così vicina, è raccontata dal 30 gennaio ogni giovedì alle 21 su Crime Investigation (canale Sky 117) con Giovani a rischio.
La serie, premiata con un Emmy e tratta dal documentario premio Oscar nel 1978 Scared Straight! di Arnold Shapiro, racconta con efficace taglio documentaristico il percorso riabilitativo degli adolescenti a contatto con la vita carceraria statunitense.
A Luisella Costamagna, giornalista, autrice, conduttrice, un fiume in piena di passione e rigore professionale, «di impostazione kantiana», (dice, da brava laureata in Filosofia), il compito di traghettare il pubblico in un mondo nuovo e destabilizzante.

Ogni puntata racconterà episodi emblematici del percorso riabilitativo di adolescenti americani entrati in contatto con realtà criminali. Quali punti di vista verranno illustrati allo spettatore?
«Si tratta di documentari di straordinaria qualità e realismo. Ogni episodio mira a raccontare la realtà americana da tre punti di vista: quello della criminalità adolescenziale, quello del sistema carcerario e quello del sistema giudiziario. Il filo conduttore è il percorso riabilitativo a cui sono sottoposti, negli USA, giovani che hanno commesso reati. Messi a contatto per una giornata intera con la realtà del carcere e dei carcerati “veri”, delle loro dinamiche, avranno spunti di riflessione concreti per decidere se correggere la propria esistenza o cedere a un futuro drammatico, senza sconti».
Faccio l’avvocato del diavolo. Che cosa dovrebbe importare al pubblico italiano di uno spaccato di realtà americana spesso distante da quella europea, specie nel culmine coercitivo del carcere e nell’idea stessa di reinserimento sociale?
«Il punto non è dare giudizi di merito sul sistema carcerario americano. Il valore della serie è documentaristico. Ed efficace sotto molti aspetti. Fornisce spunti di riflessione sulle somiglianze e sulle differenze del sistema americano rispetto al nostro. Raccontando spaccati di realtà non così distanti da quelli europei, specie perché i costumi americani sono di solito circa dieci anni avanti rispetto ai nostri. Anticipano i tempi. Alcune forme di delinquenza minorile -furto, spaccio, alcolismo – stanno radicandosi anche nel nostro territorio. Il dibattito sulle carceri in Italia, poi, è più che mai attuale».
Quali differenze e punti in comune tra i due sistemi possono dunque far nascere riflessioni propositive?
«I punti di contatto e di diversità sono innumerevoli. Qualche esempio: gli Stati Uniti hanno una certezza della pena che da noi latita. Tuttavia, in alcuni Stati vige la pena di morte ed è auspicabile che le pressioni interne ed esterne per la sua abolizione trovino una strada compiuta. Un terzo dei decessi nelle carceri americane avviene per suicidio, tematica attuale anche nei penitenziari italiani. L’assenza ingiustificata dalla scuola dell’obbligo, in diversi stati degli USA, è considerato reato penale. I punti di vista sono innumerevoli e sono tutti strumenti di riflessione».
Addentrandoci nel programma. C’è qualche episodio che l’ha colpita più di altri?
«Mi hanno colpito gli episodi riguardanti la delinquenza minorile femminile. Per cultura, si è portati a pensare che la situazione nei penitenziari femminili sia lieve. Invece, le ragazzine sottoposte al percorso riabilitativo documentato nel format, si confronteranno con realtà di durezza e ferocia spesso superiori a quelle maschili. Negli USA la criminalità femminile è inferiore di numero rispetto a quella maschile, ma alla pari o superiore per violenza. Proprio questo aspetto innescherà situazioni commoventi».
Commoventi da che punto di vista?
«Penso a un episodio che mostreremo: una ragazzina che rubava nei negozi, che si è trovata in carcere a fianco di una detenuta spacciatrice di crack. Si è innescato un meccanismo a specchio, la detenuta è diventata quasi una sorella maggiore, spiegando alla ragazza il dramma che potrebbe vivere se diventasse come lei. Alla fine dell’episodio, la giovane ha abbracciato la detenuta, dicendole: “Tu mi hai salvato la vita”. Le due protagoniste hanno mantenuto un rapporto a distanza, continuando a scriversi».
Una sorta di lieto fine che rende efficace il percorso riabilitativo.
«Circa il 90% dei giovani che hanno vissuto l’esperienza del carcere per un giorno, sono riusciti a correggersi, cambiando stile di vita. Un dato emblematico».
Specie perché, negli USA, se si imbocca la strada del carcere, non è semplice uscirne.
«Penso alla California. Lì vige la regole dei tre reati. Al terzo reato, non importa di quale entità, si rischia una pena moltiplicatrice degli anni di condanna. In un episodio, un adolescente avrà modo di conoscere un detenuto condannato a 50 anni di carcere solo per aver rubato 40 dollari, senza violenza. Era il suo terzo reato e gli anni di condanna si sono moltiplicati senza sconti. L’uomo ha tentato il suicidio più volte».
Giovani a rischio ha gli adolescenti come protagonisti. Teme che da noi giungeranno critiche per immagini che mostrano minori esposti a situazioni di violenza?
«Non posso prevedere quali critiche arriveranno. Il dato di fatto è che stiamo parlando di documentari, di un criterio oggettivo, in cui non c’è spazio per sensazionalismo gratuito. Sono affreschi della realtà. Consentono meccanismi razionali di riflessione, io stessa ho vissuto alcune puntate con spirito di identificazione tipico di una madre. C’è spazio per le emozioni, a volte forti. Ma non per la spettacolarizzazione gratuita dei drammi umani. L’intento è divulgativo, dar vita a polemiche preventive sarebbe pretestuoso».
Come si trova Luisella Costamagna calata nella realtà di Crime Investigation?
«Mi sono ambientata molto bene. Crime Investigation sta adattando per l’Italia prodotti americani, ma presto ci sarà spazio anche per produzioni originali. Mi sono messa in gioco come ho sempre fatto con le nuove avventure: con entusiasmo».
Coltiva nuovi sogni o ambizioni professionali?
«Coltivo l’aspirazione di andare anche su Marte, se è per questo. Se non ci riesco io, spero ci riesca mio figlio (ride, nda). Mi piace mettermi in gioco con concretezza, senza sognare a occhi aperti».
La concretezza della tv italiana è dominata dalla formula inflazionata dei talk politici. C’è passata anche lei.
«E ho preferito smarcarmi consapevolmente. Un tempo c’era una netta distinzione tra informazione e intrattenimento. Oggi l’elemento talk è inflazionato, inserito ovunque perché costa poco a livello produttivo. Personalmente, seguo volentieri attualità e politica. Ne scrivo per Il Fatto Quotidiano. Mi capita di andare ospite nelle trasmissioni, centellinando le presenze».
I talk proliferano, ma la disaffezione dei cittadini verso la politica aumenta.
«Il periodo di disaffezione è finito. Oggi siamo al gradino successivo: la rassegnazione. Tuttavia resto convinta che il pubblico che segue la politica sia migliore dei suoi protagonisti».
Pubblico che si predispone a utilizzare un’arma ormai non più così nuova: il web.
«Web e tv si sovrappongono, come da anni accade negli USA. I social sono uno strumento di partecipazione interessante ma, se penso a Twitter, penso a un mondo ancora dominato dall’autoreferenzialità. Un esempio di finta democrazia in cui i protagonisti della politica e dell’attualità si mettono in mostra come facevano i ricchi con i meno abbienti nei ristoranti raccontati nei romanzi di Victor Hugo. Ma dove la libertà di critica nei confronti dei personaggi pubblici è ancora debole».
Lei è un personaggio pubblico. Ha mai subito critiche via social?
«Anche insulti e minacce, se è per questo! Ma non le ho mai censurate. La libertà di insulto fa parte del gioco».
Tv a parte, ha qualche progetto in cantiere?
«Un libro che uscirà per Mondadori. Un’inchiesta sull’universo maschile: le donne raccontate dagli uomini. Come i maschi vedono le donne al giorno d’oggi. Con risultati sorprendenti».
Verranno sfatati i luoghi comuni?
«Parecchi. Per questo, scrivere il libro mi ha appassionata. Mi piace sempre coltivare le mie passioni. Anche a costo di abbandonare orticelli sicuri per intraprendere strade nuove».

 

Gabriele Gambini

(Nella foto Luisella Costamagna)