Pubblicato il 17/12/2013, 17:25 | Scritto da La Redazione

SAVERIO RAIMONDO, IL WOODY ALLEN ITALIANO

 

Il suo “Saverio Raimondo Live”, all’Oppio Caffè di Roma, registra sempre il tutto esaurito. In tv, possiamo vederlo nelle sue incursioni satiriche nel talk “La Gabbia”, su La7. TVZOOM ha incontrato il giovane comico che ha intenzione di diffondere in Italia la tradizione dello stand up comedy anglosassone.

 

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In questo periodo lo possiamo vedere a La Gabbia, il talk show politico di LA7 condotto da Gianluigi Paragone. E possiamo divertirci con le sue incursioni comiche, che hanno il merito di ridefinire forma e sostanza del fare satira in Italia. Saverio Raimondo, classe 1984, una carriera iniziata prestissimo a fianco di Serena Dandini, proseguita con le collaborazioni con Sabina e Caterina Guzzanti (Un, due, tre stella, La prova dell’otto) e con l’intelligente Glob di Enrico Bertolino, nella forma potrebbe ricordare un Daniele Luttazzi prima maniera – per fare un paragone tra i colleghi italiani – che nella sostanza è più ambizioso. Ha imparato la lezione anglosassone dello stand-up comedy, l’ha rielaborata e si è cucito addosso il vestiario satirico dei Woody Allen, dei David Lettermann, del repertorio d’oltreoceano capace di indicare strade inesplorate al pubblico italiano.
Perché fare satira è una cosa molto seria. Fare satira affrancandosi dall’appiattimento della contingenza, ancora di più. Se capitate dalle parti di Roma, andatelo ad applaudire, nei suoi spettacoli all’Oppio Caffè.

In questo periodo di sua collaborazione con La Gabbia, mi viene da chiederle: il talk politico sta attraversando una crisi di contenuti evidenziata dalla sovraesposizione di formule più o meno simili sulle diverse reti?
«Io non parlerei di crisi dei talk. O meglio, non solo di quella. È vero, si tratta di una formula abusata, in cui non si notano grandi differenze tra i vari format. Ma ben si collega a una crisi contenutistica generale della tv. Le ragioni sono spesso economiche. I talk costano poco e le difficoltà di budget non consentono, al momento, di investire su idee davvero innovative».
Nella ripetizione di un genere collaudato, la satira trova asilo, presentandosi come elemento destabilizzante in apparenza, ma in realtà ben inserito in una formula conosciuta.
«La satira, che in Italia difficilmente trova spazio autonomo sulle reti tv, cerca di inserirsi in quel contesto. La satira, o più spesso i suoi surrogati di umorismo bonario, che satira non sono».
In questo senso, La Gabbia ha tratti distintivi che consentono forse maggiore sperimentazione.
«La Gabbia è un talk per certi versi eretico perché meno imbrigliato in convenzioni formali. In questo senso ci si possono permettere libertà interessanti. Un esempio è un mio servizio realizzato all’indomani della comparazione fatta da Berlusconi tra i suoi figli e gli ebrei perseguitati. Ho trovato una chiave comica che forse altri format non mi avrebbero consentito. Tuttavia, se la satira ha il compito di andare sopra le righe, risulta impegnativo imporsi e mettersi in evidenza in un talk che già di suo si propone di andare sopra le righe».
Ecco la parola magica: Berlusconi. Senza di lui, la maggior parte del repertorio satirico italiano applicato alla politica andrebbe a farsi benedire.
«Vero. In generale, considero le battute su Berlusconi una sorta di appiattimento. Molti comici satirici in Italia non sono preparati a una sua uscita di scena. Questo perché non si considera un elemento fondamentale: fare satira non significa per forza fare satira politica e soprattutto non significa fare satira su Berlusconi. Il pubblico italiano fatica a riconoscere una satira che non si muova sugli stereotipi. Più in generale, fatica a riconoscere un discorso satirico che non sia il solito discorso satirico».
Qual è il limite della satira in Italia? L’appiattimento sulla contingenza dell’attualità?
«Mettiamola così: ci sta che la satira racconti anche il contingente. Ma non deve esaurirsi in questo. Io cerco di fare in modo che un mio servizio che oggi risulta divertente, rimanga divertente anche a distanza di sei mesi, affrancandomi dal legame col quotidiano. Punto al contemporaneo, non al contingente. E il contemporaneo significa sesso, famiglia, morte, relazioni, in tutte le declinazioni possibili».
E qui entra in gioco il suo repertorio, che si rifà al modello di stand up comico anglosassone. Penso ai suoi spettacoli al Cocktail Comedy Club a Roma, al progetto Satiriasi, alle sue performance su web. Non è rischioso importare una tradizione non italiana presso un pubblico abituato a una comicità territoriale?
«Parli del rischio di americanizzarci? Non vero perché non farlo. In Italia si vive il pregiudizio sugli americani, li si considera un popolo di ciccioni senza confidenza con la cultura. In realtà dobbiamo ammettere che è il nostro senso dell’umorismo, a essere “paleolitico”. In America c’è una tradizione comica avanzatissima e moderna. Lo stand up comedy americano tratta di argomenti quotidiani – il sesso, la famiglia, la religione, le relazioni – in cui chiunque potrebbe riconoscersi, a prescindere dalla provenienza. È il modo in cui lo fa, a essere diverso e innovativo».
Il rischio maggiore in Italia, forse, è creare un prodotto innovativo ma non assimilato dalle masse di pubblico.
«In Italia si tende a coltivare la massa senza emanciparla. Ci può stare che un’offerta comica non sia subito proposta alle masse. Spesso però, offrire un prodotto di nicchia fornisce alla nicchia stessa un punto di riferimento utile ad espanderla. Penso al Satyricon di Daniele Luttazzi: non mi risulta andasse poi così male».
Chi è riuscito, negli ultimi tempi, a fare satira in Italia risultando innovativo, secondo lei?
«Per fare qualche nome, Serena Dandini con l’Ottavo Nano. Lo stesso Luttazzi. Anche diverse formule sperimentate da Chiambretti, penso a Markette, erano interessanti, benché non si trattasse di satira autentica».
Una volta lei ha detto: «Censuratemi, non aspetto altro!»
«Certo! Come comico, se mi perseguiti, mi fai un favore. Una certa perversione culturale italiana fa sì che la censura risulti una manna dal cielo. Ma la grande stagione delle censure sta scomparendo. Purtroppo (ride, nda)».
Forse perché è iniziata la stagione del web, dei social e della multipiattaforma. La tv non può più esercitare forme di controllo esclusive.
«Oggi chi fa il comico e scrive/produce contenuti, deve sapersi declinare su molti mezzi. Il web offre opportunità enormi. Ma anche lì, in Italia siamo indietro. Mancano gli investimenti necessari a monetizzare la proposta comica destinata alla Rete. Basta andare in Francia per constatare come lì la situazione sia diversa. Negli USA poi, grazie a partnership adeguate e a investimenti mirati, la migliore produzione satirica, con livelli qualitativi altissimi, si sviluppa proprio on-line. Mi viene in mente Funny or Die (http://www.funnyordie.com/)».
Faccio l’avvocato del diavolo: non si corre il pericolo, con l’avvento del web, di sprofessionalizzare il mestiere? Tutti possono improvvisarsi autori di sketch, in fondo. I social network si sono trasformati in un vero e proprio battutificio di stampo spinoziano, per citare quelli di Spinoza.it.
«Attenzione: il comico non si esaurisce nella battuta. Una frase divertente e azzeccata non fa di te un comico satirico. Occorre una precisa contestualizzazione, un’attitudine peculiare, una concatenazione di elementi, tra scrittura e recitazione. Il mondo social è un battutificio, ma sarebbe semplicistico pensare sia quella la vera comicità».
Il 18 dicembre all’Oppio Caffè di Roma, si esibirà in due repliche straordinarie del Saverio Raimondo Live. Qualche auspicio per il 2014?
«Declinarmi su più strumenti possibili. Cercare altri spazi televisivi interessanti. Soprattutto, riuscire a proporre i miei spettacoli di stand up comedy in giro per l’Italia. Non è affatto facile, sai? La difficoltà maggiore sta nell’individuare spazi adatti».
Lo farà seguendo la tradizione del suo riferimento principale, Woody Allen?
«Woody Allen per me è un riferimento fondamentale. Ma potrei citare anche Mort Sahl, Bill Hicks, Andy Kauffmann, Larry David, John Stewart, i grandissimi MontyPython».
Mi tolga una curiosità: è vero che lei ha iniziato a diciotto anni a fianco di Serena Dandini?
«È stata una grande palestra. Ho iniziato lì una collaborazione come autore. Mi piaceva scrivere testi, mi sono proposto quando facevano casting alla ricerca di nuovi collaboratori. La prima volta fui scartato, al secondo tentativo mi presero. Alla mattina frequentavo il liceo, nel pomeriggio mi fiondavo da loro».

 

Gabriele Gambini

(Nella foto Saverio Raimondo)