Pubblicato il 16/12/2013, 17:29 | Scritto da La Redazione

MARIO MAFFUCCI: «“MISSION”, MI SONO FATTO UN MIO FILM»

Il nostro editorialista completa l’analisi sul programma “sociale” di Rai1, dando anche consigli per il futuro, nell’affrontare format del genere, in cui la preparazione è fondamentale per essere credibili.

meta name=”news_keywords” content=”mission, mario maffucci, rai1, giancarlo leone, rai, albano

La Mission affidata in Congo a Emanuele Filiberto, Principe di Savoia, si è infranta contro la gioiosa macchina da spettacolo della finale 2013 di XFactor. La proposta più “impegnata” della tv generalista è stata vissuta contemporaneamente al Super Talent Show della piattaforma satellitare a pagamento («questa è la tv, bellezza…»): è finita all’8% di share (1 milione 123 mila spettatori su Sky Uno più 876mila su Cielo) contro l’8.85% di Rai1, ma la vittoria di Michele ha fatto il boom su Twitter (377mila) e su Facebook (14mila fans attivi, che hanno prodotto 24.819 post e commenti sulla fan page e oltre 293 mila like). Con gli stessi numeri, un grande successo realizzato con tanta creatività e tutta la tecnologia necessaria da una parte e, dall’altra, un flop annunciato di un evento preparato come se fosse un programma qualsiasi.

Non sembri irrituale il confronto; irritante se volete, ma utile per dimostrare una convinzione che ho: se XFactor fosse stato costruito secondo i modesti canoni del talent show casalingo, non avrebbe sfondato nella cultura televisiva contemporanea, come invece è avvenuto. Interveniamo su Mission con i nostri punti di vista, perché abbiamo apprezzato l’intenzione di Rai1 di offrire al pubblico un’avventura diversa dal solito e cerchiamo di capire che cosa non ha funzionato. Il modesto riscontro che ha ottenuto dipende innanzi tutto – secondo noi – dal non essere riusciti a produrre il progetto in grande stile, come avrebbe richiesto la nobiltà del tema, i valori in campo e come del resto suggerivano i prototipi americani dai quali il format di Mission deriva (ci sarà una ragione se in queste occasioni scendono in campo Angelina Jolie o, in occasione del disastro di Haiti, i divi di Hollywood).

Nel primo intervento ho apprezzato la temeraria scelta editoriale di Giancarlo Leone; ho sostenuto che un cambio di rotta così traumatico dall’abituale proposta doveva essere spiegato al pubblico. Metto in fila ora alcune mie opinioni, senza avere la pretesa di ritenere che il mio punto di vista sarebbe dovuto essere l’unico modo di governare la comunicazione. Comunque la penso così. Un progetto così fuori dagli schemi richiede anche una preparazione dei conduttori e degli inviati speciali, diversa dalla consuetudine, chiarendo da subito le regole d’ingaggio: ci vuole una non superficiale conoscenza dell’area in cui Mission interviene e capacità reattive, di carattere psicofisico, a reggere le emozioni e la fatica del campo profughi.

Stage di 30 giorni: 15 giorni per studiare la geopolitica dell’area, la Carta dei Diritti Umani e i compiti delle Nazioni Unite; 15 giorni di addestramento nel campo con un’intensità, durezza e disciplina da corso per il corpo delle forze speciali. «L’occhio dello straniero – dice la saggezza del villaggio africano – vede solo le cose che sa”. Ecco perché Michele Cucuzza e Rula Jebreal avrebbero dovuto studiare per affrontare un tessuto umano e un ambiente, quello del campo, di particolare complessità, prospettato agli esuli come provvisorio, ma che inesorabilmente si profila invece senza speranze per tutta la vita.

Questi sentimenti fanno la differenza: o il testimone li ha profondamente dentro di sé e li sa giocare nel rapporto con gli ospiti, oppure la conduzione diventa scontata e prevedibile. Così preparati, è mia opinione, il loro atteggiamento nell’impaginare il programma sarebbe stato umanamente più interessante. Anche agli inviati speciali avrei proposto lo stage di studio e avrei approfondito i contenuti della loro Mission. Che compito avrebbero dovuto avere? Sono reporter allo sbaraglio o sono operatori umanitari in prova? Penso che sarebbero dovuti essere soprattutto operatori in prova: con un tutor si sarebbero dovuti immergere nella dura realtà della fatica manuale, nel disincanto che subentra di fronte a tutti i problemi a cui non si riesce a dare una risposta, per non risultare sovrapposti e non credibili; ma avrebbero dovuto saper scegliere e registrare le immagini di una storia emblematica a cui legare la propria esperienza nel Campo per raccontarla in studio.

L’impressione che se ne è ricavata è che, tranne Al Bano (che, obiettivamente si è impegnato più degli altri e, con la presenza delle figlie, ha dato un particolare significato alla sua partecipazione), gli inviati speciali non abbiano avuto il coraggio di farsi sommergere, come sanno fare i surfisti, dalle onde di drammaticità provenienti dal campo, per poi alzarsi in piedi e governare le “tavole” di umanità a loro affidate. Invece sono passati attoniti, magari diligenti e con tanta buona volontà, in un mondo che non hanno saputo comprendere nella sua complessità. Se, attorno alla facile emozione che si prova nell’incontro con una donna, un uomo, un vecchio o un bambino strappati alla loro terra e con un futuro raccolto in una valigia, si è capaci di accendere nello spettatore anche l’interesse di partecipare a una grande vicenda umanitaria, la proposta passa dalla morbosità di un reality a quella di un evento straordinario.

Per far vivere questa rappresentazione, sono indispensabili personaggi di grande profilo che spieghino le contraddizioni di un conflitto, lo spaccato di umanità che ne è coinvolto e la dimensione etica dell’intervento umanitario. Comunicazione non semplice, ma non impossibile. Mission ha cercato l’aggancio con il pubblico soprattutto attraverso la popolarità del cast, senza aver comunque registrato ingaggi eclatanti. Ha sottovalutato, secondo me, la potenzialità e la ricchezza di suggestione che hanno gli argomenti di geopolitica, le storie degli esuli e le esperienze umane degli operatori delle Nazioni Unite. E quindi sono mancati non solo testimoni, ma anche scrittori emozionali, inviati e fotografi di guerra, opinion leader che parlano dei massimi sistemi planetari con il gusto del racconto. Le informazioni che in grafica sono intervenute sulle immagini del reportage del campo, aprivano una serie di domande che potevano essere approfondite in studio. Si sono perse occasioni preziose per spiegare differenze di cultura e di mentalità nel concepire la famiglia, la solidarietà, il futuro, in una parte del Pianeta che non raggiungerà mai la «qualità» della nostra vita.

Una clip filmata con le coordinate generali che hanno scatenato il conflitto, sarebbe potuta diventare una «stampella» alla quale appendere gli interventi in grafica, evitando di disorientare gli spettatori non informati. In una stagione televisiva diversa dall’attuale si sarebbero potute immaginare collaborazioni e sinergie all’interno del canale che forse sarebbero state molto utili. I sevizi speciali del Tg1, o meglio Tv7 come Rainews24, avrebbero potuto trovare formule di collaborazione congeniali ai loro format di trasmissione. Il Tg1 – per esempio – nel seguire la preparazione di Mission (stage e addestramento di Cocuzza, della Jebral e degli inviati speciali) avrebbe dovuto fare, prima della partenza, un incontro con Papa Francesco («Siamo qui, Santo Padre, per far conoscere una realtà che il nostro mondo dimentica…»). I contenitor (Uno Mattina, La Vita in Diretta, L’Arena) avrebbero potuto, ciascuno a modo suo, preparare il pubblico all’evento. Bruno Vespa, che ha dedicato «deliziose» puntate a Miss Italia, in una strategia pensata in sinergia con la Rete, si sarebbe dovuto interessare all’iniziativa, tra gli obiettivi del programma, geopolitica e opinione pubblica internazionale.

La Presidente Tarantola, che si è ben rappresentata su altri temi sensibili, avrebbe così dato la linea alla sua «factory» con un’occasione d’immagine per il Servizio Pubblico non di poco conto. La Rete invece ha dimostrato di essere incerta, timorosa di fare un’esperienza nuova, pronta a declassarla di fronte a un risultato incerto come «programma sperimentale». Invece una campagna di comunicazione così articolata e incessante, se si fa per Telethon sulle tre Reti, si può fare, se ci si crede, anche per i profughi dei campi umanitari. Un tale volume di comunicazione avrebbe senz’altro fatto capire al pubblico che Rai1 intendeva fare una proposta di valenza culturale e sociale che non avrebbe avuto precedenti… Al posto di Luca Cordero di Montezemolo che ritira l’assegno dei fondi raccolti per la ricerca, Rai1 avrebbe dovuto invitare Ban Ki-moon, Segretario Generale dell’ONU.

 

Mario Maffucci

 

(Nella foto Michele Cucuzza e Rula Jebreal)