Pubblicato il 19/08/2013, 13:03 | Scritto da La Redazione

E SE SALVASSIMO LA RAI PARTENDO DAI PROGRAMMI?

E SE SALVASSIMO LA RAI PARTENDO DAI PROGRAMMI?
L’editorialista de “L’Unità”, Oreste Pivetta, prova a dare la ricetta per la televisione di Stato. Partendo da una rubrica degli anni Sessanta. meta name=”news_keywords” content=”rai, l’unità, oreste pivetta,“ Rassegna stampa: L’Unità, pagina 15, di Oreste Pivetta. E se salvassimo la Rai partendo dai programmi? Dopo aver letto un paio di giorni fa il prezioso intervento […]

L’editorialista de “L’Unità”, Oreste Pivetta, prova a dare la ricetta per la televisione di Stato. Partendo da una rubrica degli anni Sessanta.

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Rassegna stampa: L’Unità, pagina 15, di Oreste Pivetta.

E se salvassimo la Rai partendo dai programmi?

Dopo aver letto un paio di giorni fa il prezioso intervento di Giorgio Merlo sulla Rai («tre ragioni per riformare e rilanciare la rai») ho ricordato con nostalgia una rubrichetta che questo giornale pubblicava trenta o quarant’anni fa nella pagina degli spettacoli. Si intitolava «Controcanale», quando il canale televisivo era uno solo, era in bianco e nero ed era soltanto Rai, ovviamente. La firmava Giovanni Cesareo, che non s’occupava di vertici Rai o di Bernabei e che aveva l’abitudine di stroncare, con ottimi argomenti peraltro, qualunque cosa vedesse. Leggevo avidamente quelle righe in corsivo, manifesto di attenzione e di sensibilità critica, travolte nel corso del tempo dalla moltiplicazione dei canali, dall’idea che il telespettatore avesse diritto alla sua dose quotidiana di divertimento (se stupido non importa, purché lo si considerasse divertimento), dalla convinzione che ad occhio critico, sotto la lente del sociologo, tutto fa cultura (cultura di massa).

Sia chiaro: sono d’accordo con Giorgio Merlo e con la sua fermezza nel contrastare qualsiasi idea di privatizzazione (ma ci sarebbe qualcuno disposto a prendersi la Rai?) e nel rivendicare una riforma della governance, contro ogni specie di «condizionamento politico», a «salvaguardia del pluralismo»… Potrei solo obiettare, che in queste condizioni una riforma della Rai potrebbe rivelarsi una chimera, come l’aggiornamento del catasto. Ma lo scetticismo non s’addice al politico e neppure a un cittadino qualsiasi, che abbia ancora a cuore le sorti di questo Paese. Sono pure d’accordo con Merlo quando, nelle ultime righe, dopo aver polemizzato con il Movimento 5 stelle e con «lo spezzone trasversale che accomuna settori di Pd, Pdl e forze di centro», che pretenderebbero appunto «privatizzazione e dimagrimento dell’azienda» (ma siamo sicuri che dimagrire un po’ nuocerebbe alla Rai?), introduce il tema del rilancio della «qualità».

Peccato solo che il «tema» giunga alla fine. Peccato che di contenuti, tra tanta governance, non si parli e non si discuta mai, che l’obbrobrio che accomuna reti pubbliche e private non sia mai all’ordine del giorno, non susciti mai scandalo. Che «Controcanale» sia solo un reperto storico e soprattutto non lo conoscano quanti potrebbero nel loro piccolo dire e fare qualcosa (esiste ancora un consiglio d’amministrazione?). Eppure la programmazione della Rai (e delle reti private) di argomenti ne offrirebbe assai, da Natale a Ferragosto, da Ferragosto a Natale, nella ripetizione instancabile di ciò che si è già visto e rivisto (quante volte i nostri teleschermi sono stati percossi dai pugni di Rocky?), di eterni telefilm, di colonne e colonne di pinguini, di inseguimenti tra leoni ed elefanti nella savana, di tombe egizie, di biografie da santino, di improbabili talk show, di film che definire di serie C sarebbe un complimento, di sanguinanti orrori alla Dario Argento, di nonni ballerini e di nipoti canterini, di conduttori pescati nelle retrovie di questa o quella «famiglia»… fino alla «grande ripresa» autunnale, quando torneranno le solite facce a litigare di politica, sotto lo sguardo ironico e intelligente di Giovanni Floris (una rarità e non è colpa sua se si trova tanto spesso alle prese con la Santanchè o con la Bernini).

Si salva l’informazione? Il discorso sarebbe complicato, per via appunto del denunciato «condizionamento politico». A prescindere dalla politica, mi stupiscono quei telegiornali che assomigliano alla radio e che mortificano il telespettatore di immagini millenarie d’archivio. Non è raro incappare in un Berlusconi circondato da signori in cappotto nel mese di agosto. Si salva qualche volta la cronaca sportiva, ma solo il timore dell’amarcord mi impedisce di rimpiangere Martellini, Pizzul, Rosi, De Zan… possedevano uno stile e un’eleganza di cui certi loro eredi appaiono assai poveri (il numero esorbitante degli inviati non compensa la modestia degli stessi). Secondo Merlo, per metter mano alla «qualità» si dovrà prima riformare, riformare governance, strutture, non so che altro. Sembra la politica dei due tempi, mentre la ricostruzione di una dignitosa linea tra spettacolo, cultura e informazione non è detto debba piegarsi a quell’ordine di priorità: restituire decenza alla programmazione non pretende regole straordinarie di governo, non lo pretende il gusto di rinnovare il solito carosello di comparse, di promuovere telecronisti che non siano sempre in lite con l’italiano, con la buona educazione, con la sobrietà e con l’indipendenza di giudizio, di scegliere nella cineteca film meno avvizziti e meno scadenti (dopo averli reclamizzati come capolavori: anche questo riguarda l’onesta comunicazione), eccetera.

Qui mi pare stiano il punto della questione e la responsabilità di una sinistra che vuole governare, se è vero che la Rai appartiene alla «storia del nostro Paese» e alla «identità del nostro popolo». Si potrebbe riflettere sulla «identità» costruita purtroppo anche (e molto) attraverso la televisione pubblica (che per ragioni di auditel, giustificazione di qualsiasi delitto, e di pubblicità ha inseguito nel peggio quella privata). Se dovessimo considerare il passato e fermarci al presente, verrebbe da concludere che sarebbe meglio un anno d’astinenza televisiva. Dovremmo però guardare avanti e si dovrebbe sentire il dovere di verificare, discutere, cambiare. Si può fare e qualcuno dovrebbe sentire la responsabilità di fare. Si arriverà comunque prima di qualsiasi riforma.