Pubblicato il 21/05/2013, 11:31 | Scritto da La Redazione

TV PUBBLICA, DOVE È ANDATA A CACCIARSI LA CULTURA

TV PUBBLICA, DOVE È ANDATA A CACCIARSI LA CULTURA
A un anno dalla sua nomina alla presidenza della Rai decisa dal governo Monti, forse sentendo traballare la poltrona, Anna Maria Tarantola ha deciso di raccontare in un’intervista a «La Stampa» la sua visione dell’azienda. Ma dal maestro Manzi a «Che tempo che fa»: mamma Rai perde colpi. E abolire «Miss Italia» e «Isola dei […]

A un anno dalla sua nomina alla presidenza della Rai decisa dal governo Monti, forse sentendo traballare la poltrona, Anna Maria Tarantola ha deciso di raccontare in un’intervista a «La Stampa» la sua visione dell’azienda. Ma dal maestro Manzi a «Che tempo che fa»: mamma Rai perde colpi. E abolire «Miss Italia» e «Isola dei Famosi» non basta.

Rassegna Stampa: Il Mattino, pagina 1 + 17, di Ugo Volli.

Dopo l’egemonia

Tv pubblica, dove è andata a cacciarsi la cultura
Dal maestro Manzi a «Che tempo che fa»: mamma Rai perde colpi. E abolire «Miss Italia» e «Isola dei Famosi» non basta.

A un anno dalla sua nomina alla presidenza della Rai decisa dal governo Monti, forse sentendo traballare la poltrona, Anna Maria Tarantola ha deciso di raccontare in un’intervista a «La Stampa» la sua visione dell’azienda. Potremmo riassumerla così: 1. Identità: «Credo che la Rai, come concessionaria del servizio pubblico in Italia, debba avere una sua cifra».Secondo. Qualità, cioè «equilibrio, correttezza, no al sensazionalismo, no alla tivù del dolore». Terzo. Positività: «Bisogna offrire un messaggio di proposta per affrontare il problema» Quarto. Pluralismo: «Non solo politico, ma di genere, di culture, di territorio, di voci». Quinto. Piacevolezza: la Rai «deve fare prodotti allettanti, piacevoli, perché, se non la si vede, non raggiunge l’obiettivo di servizio pubblico». Sesto. Informazione: «Un prodotto cardine». Impossibile dissentire da queste parole. Chi potrebbe essere contro la qualità? O contro il pluralismo? Chi potrebbe volere una rete priva di «prodotti allettanti» o indistinguibile da tutte le altre? Il problema però quando si dirige una grande azienda, non sono le parole ma i fatti. E i soli fatti che cita Tarantola sono «l’abolizione dell’Isola dei famosi e di Miss Italia». Niente da dire sulla cancellazione di due trasmissioni piuttosto decotte e in crisi di pubblico, francamente imbarazzanti da anni.
Ma si può presentare questa piccola iniziativa come la sigla della ricerca della qualità? Di trasmissioni del genere da abolire, vecchie e prive di interesse, in crisi di pubblico e mai sfiorate da un barlume di interesse, la Rai ha piena la programmazione. Non le elenco qui per non far torto a nessuno, ma un bravo sarto avrebbe da consumare le sue forbici nell’impresa. Il problema però non è ciò che con tutta evidenza nei programmi è serie B o peggio. E la «serie A» che spaventa: ciò che la dirigenza Rai presenta come «cultura», magari «allettante» e fornita di «una sua cifra», naturalmente «positiva». Per esempio, quel grande distributore automatico di zucchero filato che è «Che tempo che fa». Oppure i talk show, in cui si celebra, con cadenza quasi quotidiana, il fidanzamento incestuoso fra televisione e politica. Per esempio i rari casi in cui in Tv si parla di libri, con evidente attribuzione di reverenza a chiunque, non importa quanto provinciale e inutile. La satira, per cui si intende la presa in giro dei nemici dei propri padrini politici, di solito col metodo, strutturalmente banale, dell’imitazione che amplifica i difetti fisici, i tic, la posture, e non sfiora mai davvero le idee e le proposte. Anche qui bisognerebbe continuare a lungo. Per non annoiare i lettori basterà dire che la «cultura televisiva» non è da tempo ricerca, innovazione, provocazione, apertura al nuovo. Ma è la stanca ripetizione di formule fissate da tempi, la ripresa di format consacrati perché anni fa hanno avuto successo. Soprattutto il privilegio di un gruppetto di protagonisti sempre uguali, graditi alla stampa «autorevole» perché politically correct, del tutto prevedibili, orientati nella maniera giusta, indignati come si deve contro chi è obbligatorio condannare, ma sempre animati di buona volontà, «positività», «piacevolezza». Intendiamoci, anche il resto della televisione italiana è provinciale e faziosa, in un senso o nell’altro, soprattutto straordinariamente ripetitiva. I programmi e i formati sono sempre quelli da anni, i personaggi non si cambiano, se una loro proposta fallisce, se ne fa subito una fotocopia sotto un altro nome. Ma né Mediaset né La7 hanno la spocchia della Rai, non pretendono di essere «diversi», non sono eredi di una tradizione che in fondo disprezza il pubblico pretendendo di educarlo, invece che di «vendergli» dei buoni prodotti, di sperimentare, di rischiare. Questa attitudine pedagogica dall’alto in basso aveva forse senso ai tempi di Filiberto Guala, primo dirigente della televisione italiana, inventore di programmi come «Non è mai troppo tardi». In quel momento la Tv di stato ebbe effettivamente una funzione importantissima nel condurre a termine l’unificazione linguistica e letteraria del paese, nell’attrezzare un popolo contadino alle sfide della modernità industriale. Si può discutere sui modi e sui contenuti specifici, ma non vi è dubbio che la Rai esercitò allora un’egemonia culturale importante. Ma nei tempi dei social network, in cui la partecipazione è la base della comunicazione, si può pensare a un’impresa comunicativa come dispensatrice di cultura alle masse passive, secondo i propri vecchiotti criteri di qualità? Più che alla Tv delle origini, Tarantola sembra ispirarsi alla tv dei professori di vent’anni fa, che approfondì la crisi del servizio pubblico pensando di sanarla. Forse, per dirigere la televisione, bisognerebbe capire di che cosa si tratta, quali sono le sfide culturali che essa oggi deve affrontare, innanzitutto dal vasto e tumultuoso mondo della rete. E più che prescrivere criteri un po’ Kitsch di «qualità» e «positività», bisognerebbe cercare di fare un’informazione più curiosa, meno ingessata, meno schierata; e un intrattenimento che provasse davvero le vie nuove, che cercasse e che inventasse. Perché nell’epoca dell’informazione diffusa la televisione è sempre più una macchina da divertimento e alla lunga senza l’intelligenza, la provocazione, la novità non funziona, che ci mostri o meno i costumi da bagno eleganti delle aspiranti Miss Italia e quelli raffazzonati dei naufraghi dell’Isola.