Pubblicato il 30/03/2013, 10:17 | Scritto da La Redazione

ADDIO JANNACCI, ARTISTA POLIEDRICO E QUELLA SUA MUSICA IN FRACK E SCARPE DA TENNIS

ADDIO JANNACCI, ARTISTA POLIEDRICO E QUELLA SUA MUSICA IN FRACK E SCARPE DA TENNIS
Peccato, se non altro perché questa Italia gli sarebbe piaciuta oltre ogni limite: surreale, dimessa, ridicola. Enzo Jannacci se ne è andato ieri sera togliendo a tutti quel riflesso che solo lui era riuscito a dare: come Longanesi, era grave ma non serio. Come i democristiani, era cattolico ma non credente. Come i veri rockettari, […]

Peccato, se non altro perché questa Italia gli sarebbe piaciuta oltre ogni limite: surreale, dimessa, ridicola. Enzo Jannacci se ne è andato ieri sera togliendo a tutti quel riflesso che solo lui era riuscito a dare: come Longanesi, era grave ma non serio. Come i democristiani, era cattolico ma non credente. Come i veri rockettari, demoliva i luoghi comuni. Vengo anch’io, no tu no.

 

Rassegna Stampa: Il Giornale, pagina 35 + 1, di Paolo Giordano

 

IL CANTAUTORE AVEVA 77 ANNI
È morto Jannacci, la voce di Milano

Addio Jannacci
Enzo e quella sua musica
in frack e scarpe da tennis

Aveva un’eleganza popolana sempre intonata a grande sensibilità per la vita dei più deboli. Che ha rivoluzionato la canzone italiana

È morto ieri sera, all’età di 77 anni, Enzo Jannacci. Lo hanno riferito fonti della Clinica Columbus di Milano, dove il cantautore, malato di cancro, era ricoverato da alcuni giorni. Jannacci si è spento intorno alle 20,30. Accanto a lui c’era tutta la sua famiglia. Nato a Milano il 3 giugno 1935, Jannacci si era formato musicalmente con il jazz (addirittura suonando con un mostro sacro come Chet Baker). Poi, accompagnato dal sodalizio con Giorgio Gaber, la sua lunga e fortunatissima avventura artistica (di pari passo con la professione di medico) era proseguita fra cabaret e dischi, apparizioni televisive e spettacoli teatrali.

Peccato, se non altro perché questa Italia gli sarebbe piaciuta oltre ogni limite: surreale, dimessa, ridicola. Enzo Jannacci se ne è andato ieri sera togliendo a tutti quel riflesso che solo lui era riuscito a dare: come Longanesi, era grave ma non serio. Come i democristiani, era cattolico ma non credente. Come i veri rockettari, demoliva i luoghi comuni. Vengo anch’io, no tu no. D’altronde li era nato, nella culla del rock italiano, dopo il liceo Manzoni di Milano con Giorgio Gaber (con cui formò I Due corsari) e la laurea in Medicina, dopo Elvis e Chuck Berry, dopo Clem Sacco e Adriano Celentano e tutta la Genova bene della canzone d’autore con Gino Paoli, Luigi Tenco e Bruno Lauzi. Jannacci era con chiunque, su disco in tv o in radio, ma è sempre rimasto da solo. Nessuno, neanche il cardiologo Christiaan Bamard che lo volle nella sua equipe in Sudafrica, riuscì a tenerlo nella propria squadra. Era un solista, non c’è niente da fare. Forse perché aveva suonato jazz con solisti in pectore come Stan Getz o Gerry Mulligan o Franco Ceni. O perché, dopotutto, aveva una cifra sua e inimitabile che oggi rende orfani tutti. Lui se ne è andato dopo una lunga malattia e un silenzio meno lungo ma ugualmente doloroso: ha partecipato nel 2010 e nel 2011 a Zelig, dove il suo bravo figlio Paolo è direttore d’ orchesta, facendo evidente, sempre più evidente, la lontananza tra sé e la comicità di oggi, tutta politica, tutta molto spesso volgare. Jannacci, sia che cantasse recitasse o scrivesse, era inattaccabile, elegante e geniale al punto di entrare nella lingua italiana anche quando cantava in dialetto milanese come in El portava i scarp del tennis, anno 1964, autentico ritratto di un senzatetto milanese che ancora oggi, nelle serate di nebbia in Piazza Affari o sotto i podici di via Rovello, si può trovare inalterato. Ecco, mezzo secolo dopo, anche dopo aver traballato in classifica e nella propaganda commerciale, Jannacci è ancora attuale. Forse più attuale ora di quarant’anni fa, quando si assopì e sparì per un po’ dalle scene mentre tanti suoi amici, da Cochi e Renato, da Dario Fo fino a Mina, decollavano lanciando le proprie carriere. Ed è per questo che ieri sera, appena saputo della morte, tanti hanno detto: senza di lui non ci sarebbero i cantautori. Sembra un paradosso ma non è così. Fabrizio De André, ad esempio, giovanissimo usò la sua La mia morosa la va alla fonte, basatasi di una trama musicale del XV secolo, come accompagnamento melodico di un suo superclassico come Via del Campo. Ed è inutile, persino stucchevole, ricordare Quelli che, il suo settimo disco del 1975 (registrato oltretutto con maestri come Tullio De Piscopo e Bruno De Filippi) che è diventato uno slogan per tv, titoli di giornale e insomma proclami di attualità. Anche oggi che se ne è andato, Enzo Jannacci è quello che. Quello che ha tirato fuori ciò che Alberto Sordi non poteva tirare fuori. Ciò che la politica evitava. E ciò che la gente non riconosceva perché in tutt’altre faccende affaccendata. Se uno ci pensa, Jannacci in tv è apparso poco in questi ultimi venti o trenta anni. Ma c’è sempre stato, privilegio, questo sì, di pochi. E forse, lui così sarcastico, ha scelto il momento giusto per andarsene. Malato, malatissimo, ha resistito fino a che la sua Italia ha resistito: ora che cambia non gli interessava più l’effetto che fa. E ha preferito, lui così fuori dalla realtà pur essendoci calato dentro fino al collo, evitare di averne a che fare perché intanto l’aveva già detto, quand’ era in teatro al Carcano di Milano o sul set di Una Weller e Monicelli, quand’era Uomo a metà sulle tracce di Gaber (2003) oppure con Fazio che lo ha ospitato per l’ultima volta in tv a fine 2011. A farci caso, anche se distante ormai dal mondo, Jannacci era ancora dentro la nostra vita. E oggi, mentre scatteranno puntuali tutti i necrologi, lui da lassù se la riderà di gusto. Forse per la prima volta. Forse perché li aveva previsti già quel giorno del 1956, quando diventò tastierista dei Rocky Mountains e sapeva già di essere da un’altra parte. Fuori. O forse sopra.