Pubblicato il 08/12/2012, 11:54 | Scritto da Gabriele Gambini

Marta Iagatti, la “Betty Boop” italiana alla corte di Pupi Avati

Per fortuna, all’epoca esasperata della ricerca androgina applicata alla femminilità, si è sovrapposto il sogno retrò del burlesque e delle pin-up anni’50: un avamposto di fascino, una mistica che puntella gli attributi dell’altra metà del Cielo.  Marta Iagatti, della scuderia di attori Quattrop (http://www.quattrop.com/home), ne sa qualcosa. Ha ventotto anni, ma già la chiamano la Betty Boop italiana. Vanta molte esperienze teatrali, ma ora è ai blocchi di partenza per le fiction Rai 2013. Scelta da Pupi Avati, sarà Laura Dagnini nella serie di sei puntate Un matrimonio, e affiancherà Vittoria Puccini in Altri Tempi.

Marta, ce lo dica: come è stato, lavorare agli ordini del Maestro Pupi Avati?

«Un privilegio. Specie vista la mia età e la delicata situazione lavorativa generale. Pupi è un regista abituato a lavorare cinematograficamente, anche se gira qualcosa per la tv. Lui ha molta più carta bianca dalle produzioni rispetto ad altri registi, può permettersi totale responsabilità di scelta. Di lui mi hanno colpito la delicatezza abbinata all’estrema cura sul set, l’evidente mano poetica autorale».

Un matrimonio è una sorta di lungo film dalla durata di 600 minuti, suddivisi in sei puntate.

«Avati ha scritto di suo pugno anche la sceneggiatura. Per farlo, ha preso spunto dalla storia della sua famiglia. È una fiction monumentale, attraversa diverse generazioni. È il percorso di vita di una coppia di sposi, Flavio Parenti e Micaela Ramazzotti, dai 18 anni ai 70. L’ambientazione spazia dalla Bologna bene del dopoguerra agli anni ’70/’80. Attorno a questi due personaggi ruotano grandi vicende umane, oltre a una serie di figure decisive. Io interpreterò Laura, la sorella del protagonista maschile, una ragazza democristiana, benpensante, tradizionalista. In pratica, sarò la zia di Pupi, traslando la vicenda nella vita reale».

Come abbiamo osservato, si tratta di una sorta di biografia della famiglia del regista. Una prova autorale intimista, analizzata con la lente d’ingrandimento del racconto. Le ha chiesto qualcosa in particolare, per immedesimarsi al meglio nella parte?

«Lui chiede molta generosità emotiva. Sa captare il pezzo di anima che stai mettendo in gioco nel momento in cui interpreti un ruolo, partire da quello e iniziare a costruire un personaggio. Con lui non c’è niente di predefinito, a parte le linee guida. Il fluire della recitazione è molto spontaneo».

Il suo aspetto incarna quella fisicità da pin-up, molto anni ’50. L’ha aiutata nel calarsi nel personaggio?

«Certe volte trovo molto divertente giocare con l’immagine della pin-up. Altre volte può essere penalizzante. L’essenziale è che non diventi un cliché».

Anche l’altro ruolo da lei ottenuto per una fiction, quello in Altri Tempi di Luca Turco, è legato agli anni ’50…

«Hai ragione. Ma sarà un ruolo molto diverso da quello della borghese benpensante di Un matrimonio, tutta casa, chiesa e cimitero. Sarò Betty, una ragazza che proviene dalle campagne marchigiane e che si ritroverà a lavorare in una casa di tolleranza di Torino. Il suo sogno è diventare una soubrette, lavorare nella recitazione. Lei considera temporanea la sua presenza nel bordello, spera di incontrare qualcuno capace di affrancarla dalla sua condizione e farle fare il salto di qualità nella vita.  Mi sono affezionata a quel personaggio, è solare, ruspante, nella sua veracità albergano i tratti distintivi della sua terra, le Marche, che poi è anche la mia. Dietro a un modo di affrontare le cose apparentemente ruvido e semplice, c’è un mondo di emozioni assai ricco, oggi raro da trovare».

A quei tempi, in fondo, lavorare in un bordello significava proprio “andare in scena”: ogni ragazza rappresentava una suggestione ben precisa, si calava in una parte, come una teatrante decisa a incontrare il gusto dei suoi, chiamiamoli così, ammiratori…

«Entrare in una casa di tolleranza era come entrare in un castello. C’erano moltissimi costumi di scena. Le ragazze, che provenivano sempre da realtà assai povere, psicologicamente indossavano delle maschere per compiacere la clientela. Si calavano in una parte. In una scena, vedremo Betty cantare e ballare. A quel tempo, era proibito cantare in una casa chiusa, ma la maitresse, complice la spontaneità di Betty, farà per lei un’eccezione. Attenzione, però: dietro a questo mondo apparente, spesso si celavano realtà personali drammatiche».

Come ha rappresentato il personaggio? Si è documentata sull’epoca?

«Ai provini ci hanno chiesto di organizzarci portando degli oggetti utili a caratterizzare l’epoca. Il mio personaggio è l’unico ad avere connotazione brillanti, mi sono divertita molto a interpretarlo. Certo, gli spunti di riflessione offerti dalla fiction sono profondi e toccanti».

Una riflessione sulla condizione femminile pre legge Merlin?

«Esatto. Una riflessione sulla condizione femminile di quell’epoca. Ma anche sui diritti civili acquisiti dalle donne nel tempo. A volte si dà per scontato il percorso di emancipazione fatto dalle donne: in realtà è legato a un passato molto recente. Sono trascorsi appena sessant’anni. Certi retaggi di quell’epoca, nel modo di pensare e nella coscienza collettiva, permangono».

Da un punto di vista sociale, in Italia con ciclicità infuria il dibattito sull’inquadramento legale della prostituzione come mestiere. Che ne pensa, in merito?

«Ci sono troppe sfaccettature da analizzare. Non mi sentirei di dare un’opinione precisa subito. Sono certe però due cose: la mercificazione del corpo femminile è sempre un passo indietro, sdoganarla e legalizzarla rappresenta un rischio. Dall’altro lato, fornire una tutela alle donne che esercitano quel mestiere è fondamentale per proteggere la loro dignità».

Tornando alla sua carriera: il 2013 si preannuncia per lei molto prolifico, con queste due fiction in partenza. Per un’attrice proveniente dall’Accademia Paolo Grassi di Milano, che cosa rappresenta l’approdo in tv?

«Della recitazione mi piace l’aspetto ludico, la creazione, la ricerca. Il teatro mi ha regalato tantissimo. Alla macchina da presa non avevo mai pensato, fino a oggi. La tv è una valida alternativa al teatro, specie in questa congiuntura economica. Il percorso creativo è differente, si tratta di due linguaggi diversi, anche la lente che divide il tuo lavoro dalla fruizione dello spettatore cambia. Sono meccanismi diversi ma complementari».

Che cosa le mancherebbe, ora? Il cinema?

«Mi piacerebbe molto fare cinema. Lì c’è più possibilità di raccontare delle storie senza l’urgenza produttiva televisiva. Alle volte, in tv ci sono troppi pochi soldi e troppo poco tempo».

In quale ruolo?

«Dopo diverse esperienze su set di fiction “d’epoca”, mi piacerebbe un ruolo contemporaneo».

Marta Iagatti guarda la tv?

«Non la guardo granché, altrimenti mi arrabbio. C’è troppo sfruttamento del mezzo, abbinato a troppa ipocrisia di fondo nell’usarlo. Si salvano le fiction. Spesso le tematiche affrontate sono quelle dei bei tempi andati, manca il coraggio di osare di più. Ma ci sono anche valide produzioni. Se fossi un po’ più nerd, mi interesserei maggiormente anche alle web fiction. L’essenziale è che le produzioni, tutte, diano spazio ai giovani».

Largo alle nuove generazioni, dunque?

«Da un certo punto di vista, la crisi economica aiuta a valorizzare nomi nuovi per esigenze di budget. Questo è uno dei pochissimi aspetti positivi di questo periodo disastrato. In generale, c’è bisogno di forze fresche nel mondo del lavoro, dell’energia propulsiva degli under 40. Sul set di Altri Tempi, per esempio, il regista Marco Turco mi ha fatta divertire come una pazza. Lui è propenso a uno scambio continuo di idee, di slanci creativi. Sa valorizzare un cast giovane. I matusa se lo ricordino: se i giovani se ne andassero in massa dall’Italia, il Paese resterebbe senza futuro».

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Marta Iagatti)