Pubblicato il 11/11/2012, 11:32 | Scritto da La Redazione

GIULIO CARLO ARGAN: «PICCOLO SCHERMO, PICCOLE IDEE»

GIULIO CARLO ARGAN: «PICCOLO SCHERMO, PICCOLE IDEE»
Il quotidiano “Il Messaggero” riprende un brano dello storico dell’arte, scomparso nel 1992, in cui parlava della televisione. Riletto con gli occhi di oggi se ne intuisce la grande attualità. Rassegna stampa: Il Messaggero, pagina 26, di Giulio Carlo Argan. Piccolo schermo, piccole idee Giulio Carlo Argan, intellettuale e storico dell’arte è il titolo del […]

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Il quotidiano “Il Messaggero” riprende un brano dello storico dell’arte, scomparso nel 1992, in cui parlava della televisione. Riletto con gli occhi di oggi se ne intuisce la grande attualità.

Rassegna stampa: Il Messaggero, pagina 26, di Giulio Carlo Argan.

Piccolo schermo, piccole idee

Giulio Carlo Argan, intellettuale e storico dell’arte è il titolo del libro di cui anticipiamo un brano con l’analisi ancora attuale sul modo di fare tv, sul rapporto del mezzo con il significato e sul ruolo della cultura.

L’INEDITO premesso che tutti i mezzi di comunicazione di massa esigono un apparato industriale e che per conseguenza la televisione, oltre che un pubblico servizio, è necessariamente un’industria, sarebbe davvero dissennato pretendere che si mettesse al servizio dell’alta cultura. La comunicazione di massa è tutt’altra cosa dalla comunicazione alla massa e la cultura di massa non è la scienza spiegata al popolo: infine, la televisione non ha il compito di diffondere o divulgare una cultura data, ma di produrre cultura. E non si scambi per devozione sincera l’ossequio servile e traditore tributato all’alta cultura; è ancora reverenza al potere, e nasconde il dispregio per l’inferiorità culturale media degli spettatori. Seguitando a essere spaccio e non fabbrica d’immagini, la televisione potrà forse diminuire il dislivello delle conoscenze scientifiche e letterarie tra i membri delle comunità, ma non riuscirà mai ad uniformare il modo dell’esperienza o, se si vuole, del consumo culturale. Poiché l’apparato si serve di mezzi visivi, è chiaro che la comunicazione dovrebbe stimolare, sviluppare e coordinare i processi dell’esperienza visiva. Invece è proprio il messaggio visivo che, nel fatto, si dimostra fiacco, incoerente, empirico e sgrammaticato, sempre noioso e non di rado fastidioso o repellente: in ogni caso privo di stile e dunque, alla radice, di metodo. Prende a prestito, soltanto sommariamente adattandole, le procedure di comunicazione del teatro, del cinematografo, del réportage giornalistico; ed applicandole inevitabilmente le deprime, dando luogo a quel processo di degradazione culturale di cui si vede il primo stadio nelle riduzioni per il video delle grandi opere letterarie e l’ultimo ed infimo nei giochi sul tipo di “Lascia o raddoppia” e di “Rischiatutto”.

ESTETICA Bisogna dunque escludere dalla ricerca della possibile esteticità della comunicazione televisiva tutto ciò, che è molto, che si classifica ancora come sotto-teatro e sotto-cinematografo, nonché ovviamente, gli spettacoli-quiz, in cui intenzionalmente si sfrutta la denigrazione e la prostituzione della cultura come elementi di immediato successo presso un pubblico ritenuto a priori ignorante. Rimangono i due estremi della gamma: le inchieste seriamente impegnate nella problematica storica, come quelle di TV7, e al suo polo opposto, le comunicazioni senza alcun impegno problematico (e quindi potrebbero essere puramente visive) come la pubblicità. È significativo che le inchieste, il cui interesse è prevalentemente nei contenuti, siano generalmente soddisfacenti anche dal punto di vista visivo; e che invece la pubblicità, dove l’impegno problematico è minimo o nullo, dal punto di vista della comunicazione visiva sia, obiettivamente, scandalosa. (…) Ritornando dal caso particolare al generale, la mancanza di una metodologia di base è provata dal fatto che i tecnici della comunicazione per mezzo d’immagine, gli artisti, non vengono chiamati a collaborare al sistema se non occasionalmente e saltuariamente, per la scenografia o la regia di qualche spettacolo d’eccezione: non, comunque, alla funzione principale, che rimane la formazione di una cultura di massa. Non si rimpiange né si domanda, beninteso, che i canali della televisione siano disponibili per la divulgazione dei risultati della ricerca estetica come per quelli della ricerca scientifica; non si capisce però perché gli artisti non lavorino sistematicamente perla televisione. Molti di loro, i più avanzati, hanno ormai abbandonato le tecniche tradizionali dell’arte e si valgono, per la ricerca estetica, della macchina fotografica e della cinepresa. Il loro problema non consiste più nell’invenzione delle immagini, ma nella formazione di serie ritmiche di immagini prelevate “tecnologicamente” dalla realtà.

GLI ARTISTI Si comportano cioè come l’architetto che costruisce servendosi di elementi prefabbricati. (…) La comunicazione di massa non è lo sbocco a cui l’artista si rivolge in mancanza di meglio; è l’Apparato culturale in cui la ricerca estetica deve necessariamente situarsi, il quadro di riferimento in cui sí giustifica. Inseriti nel sistema della visione come puri tecnici dell’immagine in serie, gli artisti non avrebbero alcun diritto o interesse di interferire nei contenuti dei messaggi, ma soltanto nei processi di comunicazione. La loro competenza e la loro responsabilità non dovrebbero, per ragioni di principio, andare aldilà dell’intelligenza e dell’intelligibilità visiva della comunicazione: evitare ch’essa sia, com’è oggi, confusa, inconcludente, balbettante, scorretta, alinguistica. Ma dovrebbe esplicarsi in tutto il suo arco, perché la qualità estetica di un messaggio è una condizione della sua perspicuità e della sua efficacia: anche quando si tratti di informazioni politiche, sportive, d’attualità. O, a maggior ragione, di pubblicità. Ciò di cui sembrano (o forse, scelti come sono secondo criteri più politici che tecnici) non rendersi conto i responsabili del “potere” televisivo, è che la comunicazione di massa non può avere due livelli, di cui uno estetico ed uno no. Può essere, in blocco, esteticamente giusta o sbagliata; oggi, per i nove decimi, è sbagliata. Si pone il problema estetico in termini dilettanteschi, di gusto; subito aggiungendo, a mo’ di alibi, che il gusto dei molti deve “democraticamente” prevalere sul gusto di pochi. Invece il problema non è di gusto, è di metodo; ed il discorso dei molti e dei pochi non regge più. Non si desidera né si chiede una televisione più “artistica”, lo è anche troppo: non c’è trasmissione che non sia adorna di fronzoli “artistici” da mettere in stato d’inferiorità la produzione di almanacchi e di cartoline postali. La componente estetica deve agire alla radice: concorrere insomma alla fondazione di quel linguaggio o, più precisamente, di quella semantica televisiva che dovrebbe esserci e senza dubbio ci sarà un giorno, ma per il momento non è che nel pensiero e nei voti di pochi.