Pubblicato il 03/11/2012, 18:32 | Scritto da La Redazione

EDOARDO RASPELLI: «NON AMO I FORMAT DI RICETTE, OLTRE A “MELAVERDE” MI PIACEREBBE FARE UN FILM»

Dal successo di “Melaverde”, condotto assieme a Ellen Hidding ogni domenica alle 11.45 su Canale 5, al ruolo del giornalismo in Italia, il popolare critico gastronomico non si è risparmiato, raccontandosi a TVZOOM.

Non ha peli sulla lingua, mentre tanti ne hanno sullo stomaco. Ha ricevuto querele per le sue stroncature, ma le ha vinte tutte. Ha assicurato il suo olfatto e il suo gusto per 500.000 euro. In più, mentre il suo peso (quello corporeo) diminuisce, il peso (quello televisivo) del suo Melaverde cresce. Soddisfazioni inversamente proporzionali del fare tv.
Sarà perché Edoardo Raspelli non è solo uno storico peso massimo del giornalismo applicato alla cronaca gastronomica. È poliedrico, affamato di novità, vanesio quanto basta per sguazzare tra le onde della messa in onda catodica con lo stesso spirito con cui ha insegnato agli italiani a destreggiarsi tra alberghi e cibi sulle pagine dei quotidiani. Con una differenza sostanziale: «Se oggi mi chiamasse il New York Times chiedendomi un articolo su un ristorante, lo scriverei senza problemi. Ogni volta che registro una puntata di Melaverde, invece, non riesco a trattenere un po’ d’ansia».
Ansia che, risultati alla mano, porta bene.
«Incrociamo le dita. Siamo tesi, un po’ preoccupati, ma soddisfatti. Melaverde da settembre ha traslocato da Rete 4 a Canale 5. Ci sono ancora spettatori, specie quelli occasionali, non fidelizzati, che non sanno dello spostamento. Però i numeri ci premiano. La puntata di domenica 28 ottobre ha totalizzato 2.033.000 spettatori, nel target commerciale durante tutta l’ora di programmazione ha toccato il 13,93% di share. Nella seconda parte siamo arrivati al 14,84%. Il nostro massimo storico. Se si pensa che il nostro diretto concorrente, Linea Verde, è arrivato al suo minimo, 16,64% di share, su una rete come Rai Uno, con un target specifico più affine, abbiamo di che gioire».
Non male, se si pensa che Melaverde esiste da numerose stagioni. Che ricordo ha degli esordi?
«Nel 1998 siamo partiti su Rete 4 con circa il 5% di share. Edizione dopo edizione, siamo diventati il programma più visto della settimana. Io sono arrivato nel programma ai tempi in cui il conduttore era Tony Garrani. Sulle prime mi proposero di collaborare gratis. Non se ne parlava proprio, ovviamente. Allora mi proposero un contratto. Iniziai con 3 minuti a puntata, che poi diventarono 5, poi 10. Poi, quando per motivi a me ignoti, Garrani non fu più conduttore, toccò a me, grazie alla proposta di Giacomo Tiraboschi. Ero affiancato da Gabriella Carlucci».
In occasione del passaggio a  Canale 5, è cambiato qualcosa nel concepire Melaverde?
«Sono state eliminate le gag comiche, e un po’ mi dispiace. Non avendo più come compagno di rete Pianeta Mare, siamo più liberi di visitare località marittime. Fermo restando che io preferisco andare in montagna. Spero si possa, in prospettiva, allargare il budget e i mezzi tecnici per esplorare i territori. Lascio volentieri a Ellen Hidding il piacere di andare in località esotiche e lontane come la Nuova Zelanda. Io sono pigro, e sto molto bene in Italia. In questa edizione abbiamo visitato l’entroterra delle Marche, in questi giorni Ellen sta esplorando la Calabria. Quel che più conta, però, è raccontare delle storie. Alla gente interessa quello. Mostrare, per esempio, come si fa l’olio. Poco importa che venga mostrato ad Albenga o a Andria».
Il vostro punto di forza?
«Il gioco di squadra. Siamo un team snello, formato in tutto da 7 o 8 persone. Ci sono 3 registi e 3 autori che si alternano. In altre circostanze, ciò potrebbe creare stridore. Da noi no, c’è un clima eccellente».
Nella tv di oggi vanno tanto di moda i format di cucina: la signorina o lo chef di turno che mostrano come realizzare ricette. Ne ho intervistati a valanga, ultimamente. Crede ci sia un motivo alla base della diffusione di questi programmi?
«Il motivo è anzitutto produttivo. Le trasmissioni di cucina costano poco, realizzarle dallo studio significa eliminare costi aggiuntivi di produzione».
A lei piacciono?
«Io non so cucinare bene e non mi interessa saperlo fare. Mi piace mangiare, giudicare la qualità di un ristorante, difendere i consumatori. Non mi interessa stare davanti alla tv a contemplare la conduttrice scoppiettante di turno con forme generose in bella vista mentre si diverte a fare i doppi sensi sulla parola “pisello”. (Ogni riferimento alla Clerici è puramente casuale, nda)».
A proposito di giudicare. Lei ha fatto assicurare il suo olfatto e il suo gusto…
«Ho stipulato una polizza con la Reale Mutua di Torino per 500.000 euro. Mi costa 3000 euro all’anno, non è uno scherzo. All’inizio è stata un’idea puramente mediatica, per attirare l’attenzione. Da quando ho reso pubblica la notizia, sono stato subissato di lettere di approvazione. In effetti, ci vuol poco per perdere gusto e olfatto: un’influenza, una botta in testa. E io, con i due sensi specifici, ci lavoro».
Ci lavora, eccome. E con risultati eclatanti. Mi dica un po’, qual è il tipo di cucina più sopravvalutato in cui si è imbattuto?
«Noi giornalisti amiamo buttarci sulle novità. Nella cronaca gastronomica spesso si fa prima il titolo e dopo il pezzo. Manca la volontà di osservare, assaporare e giudicare obiettivamente. La buona tavola, prima di tutto, è sinonimo di armonia. In genere, rifuggo tutte quelle cucine denominate “d’avanguardia”, che tendono a scomporre gli ingredienti, affiancandoli anziché amalgamandoli. Un po’ come se io, per comprarmi un vestito, andassi a comprare una pecora, dimenticando l’iter della filiera produttiva. Un buon piatto non è formato da ingredienti accostati uno all’altro. E’ un mix omogeneo di colori e sapori».
Quando non mangia in un ristorante, le capita mai di andare a fare la spesa?
«Raramente. Se ci andassi spesso, ogni volta comprerei tutto il supermercato. Sento un bisogno costante di curiosare, di assaporare novità, di sperimentare. Io sono uno di quelli, per intederci, che anche se andasse dal cartolaio comprerebbe tutti i quaderni colorati, le matite, le penne, affascinato dalle caratteristiche di quanto esposto. Non so moderarmi».
Non sapeva moderarsi nemmeno a tavola, immagino.
«Tanto meno a tavola. Per questo sono reduce da un bypass gastrico. Due anni fa pesavo 126 kg. Stamattina sono passato a 93 kg. Ora il mio stomaco, artificialmente ristretto, può tollerare solo modiche quantità di cibo. Devo mangiare come un uccellino. Assaporare lentamente. Con forzata moderazione».
Può compensare la mancanza assecondando quel pizzico di vanità presente in ogni uomo di televisione. A proposito di tv, le piacerebbe sperimentare qualche novità?
«Premetto che adoro Melaverde, lo sento mio, ogni volta che inizio una puntata è come se fosse la prima. Detto questo, non ho limiti. Farei volentieri Striscia la notizia, farei un programma dove si canta, si balla. In passato ho condotto il quiz  giallo Pyscho con Remo Girone, ho fatto l’attore nel film di Chiambretti Ogni lasciato è perso. Ecco, parteciperei volentieri a un film, magari un remake di Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa».
Parteciperebbe nel ruolo di attore, di regista, oppure di…?
«Di attore, naturalmente. In tv mi piace seguire le indicazioni di altri».
Come cronista gastronomico è stato anche esecutore di “condanne”, stroncando alcuni ristoranti. E’ stato querelato più volte?
«Ho ricevuto querele da parte dei ristoratori, ma le ho sempre vinte. C’è da osservare che, dagli anni ’70 a oggi, la ristorazione in Italia è molto migliorata. Io non svolgo però il lavoro di critico dei piatti. A me piace la cronaca gastronomica. Descrivere l’esperienza in un ristorante o in un albergo, dall’inizio alla fine. Le sensazioni provate da quando ci si mette piede a quando si esce».
Che cosa prova, ripensando alla sua carriera da giornalista?
«Ho iniziato al Corriere dell’informazione quando avevo 22 anni. Nella redazione del Corriere della Sera, all’epoca, lavoravano nomi del calibro di Walter Tobagi, Vittorio Feltri, Massimo Donelli, Gigi Moncalvo, Gian Antonio Stella, Paolo Mereghetti, Gianni Mura, Ferruccio De Bortoli. Chissà, se anziché occuparmi di gastronomia, avessi seguito altri settori di cronaca…».
Il giornalismo di oggi è cambiato?
«In giro vedo molta piaggeria. Spesso, oggi non sai mai se stai leggendo un articolo o una marchetta. Specie nel mio campo. In più, aggiungiamoci la crisi della carta stampata a peggiorare la situazione. Nel mondo comandano i signori di McDonald’s, della Coca Cola, delle Sette Sorelle. La cronaca è subordinata all’economia. La mia rubrica su La Stampa è l’unica a parlare della qualità degli alberghi in modo obiettivo».
Da questo punto di vista, si salvano pochi quotidiani?
«Leggo circa 8 quotidiani al giorno, tra cui Corriere La Stampa La Repubblica Il Giorno Llibero e Il Fatto quotidiano. Quasi nessuno parla di gastronomia dal punto di vista del consumatore. Faccio un esempio: è possibile che i vini siano tutti buoni? Che non si legga mai una critica negativa? Eppure, in altri ambiti come lo sport, il teatro, il cinema, esiste il diritto di stroncatura!».

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Edoardo Raspelli)