Pubblicato il 17/05/2017, 17:34 | Scritto da Gabriele Gambini

Nicolai Lilin: Non amo gli scrittori tuttologi da social

Nicolai Lilin: Non amo gli scrittori tuttologi da social
Tvzoom incontra lo scrittore di origini russe che da stasera alle 22 su Crime+Investigation, condurrà "I miei 60 giorni all'inferno". Un'occasione per parlare con lui di carcere, vita nella Russia post-sovietica, letteratura, talent show e geopolitica.

Nicolai Lilin: “Quando ero giovane, giravo con pistola e coltello, ma sognavo una vita normale”

Non ama la divisione del mondo in buoni e cattivi, in uomini e no. Dice di diffidare del politicamente corretto quando si erge a difensore di una morale unilaterale, repressiva nei confronti di un pensiero divergente. Non smania per la televisione, ma la frequenta spesso, «Solo se mi propongono progetti coerenti con ciò che ho da dire». Tradotto, non andrebbe mai in tv per puro entertainment, come accade in un talent show: «I talent fabbricano mostri». Al piccolo schermo, preferisce la letteratura, meglio se progressiva per il sapere e con capacità di sedimentarsi negli anni a venire. Nicolai Lilin, scrittore, autore del best seller Educazione Siberiana (Einaudi) e del recente Favole Fuorilegge (Einaudi), tatuatore (prima dell’inchiostro su carta ha imparato a lavorare con quello sulla pelle, nella sua Transnistria, laboratorio formativo di cultura russa in cui, per le strade, più che la penna si maneggiava il coltello), ex soldato della guerra di Cecenia, ha conosciuto il carcere a 12 anni.

Oggi, il carcere, lo racconta, introducendo la terza stagione de I miei 60 giorni all’inferno, in onda su Crime+Investigation (canale 118 di Sky) da mercoledì 17 maggio alle 22. Gli ingredienti sono gli stessi delle passate edizioni: nove volontari innocenti accettano di farsi rinchiudere in una delle prigioni più controverse degli Stati Uniti d’America, la Fulton County Jail di Atlanta, per documentare che cosa significhi vivere dietro le sbarre.

Nicolai Lilin, ne I miei 60 giorni all’inferno, il suo compito è introdurre gli episodi attraverso brevi pillole che facciano da filo conduttore.

Premessa: il programma è un esperimento sociale. Come tale, l’informazione arriva diretta, senza filtro, allo spettatore. I miei lanci servono a spezzare il ritmo della narrazione, fornendo spunti di riflessione al pubblico. Alternando al racconto incalzante delle storie nella prigione, momenti di ragionamento su ciò che si è visto.

Ciò che si vede ha un tratto distintivo preciso: il carcere è un luogo di repressione, ma difficilmente lo è di rieducazione e reinserimento nella società.

Le carceri della maggioranza delle nazioni del mondo sono uguali. Forse cambiano alcuni aspetti, ma nella maggioranza dei casi si tratta di luoghi che non funzionano secondo lo scopo prefissato. Non cambiano le persone in meglio, anzi, spesso si presentano come autentiche università del crimine: uno ci entra da criminale e dentro lo diventa ancora di più, perché apprende i modi per migliorare il proprio peso specifico in una determinata cerchia.

In questo caso ci si riferisce alla realtà americana.

Negli USA le carceri sono un problema doloroso perché si tratta di un Paese caratterizzato da un consumismo compulsivo. I penitenziari sono spesso gestiti da compagnie private che non hanno altra intenzione se non di guadagnare il più possibile da quello che considerano a tutti gli effetti un business. Attraverso ciascuna esperienza raccontata dai nove volontari del programma, diversi per estrazione sociale e mestiere, si prende visione della realtà.

Lei ha conosciuto il carcere in Madrepatria.

Avevo 12 anni. Accoltellai un tossicodipendente in un parco quando aggredì me e alcuni miei amici. Era l’epoca di poco successiva al crollo dell’Unione Sovietica, finii in una sezione di massima sicurezza. Ho capito che in questo ambiente si è tutti innocenti e colpevoli allo stesso tempo, perché per sopravvivere si deve scendere a patti con la realtà criminale al suo interno.

Raccontare la vita di un carcere in tv non è morboso?

No, perché non si tratta di entertainment, ma di un programma dal valore formativo elevato. Un esperimento sociale utile agli spettatori per conoscere realtà altrimenti inavvicinabili. In quest’edizione sono migliorate le tecniche di ripresa, l’efficacia del racconto, con tanti punti di vista diversi, sfumati e mai nettamente positivi o negativi. Ha il ritmo di una serie tv ma non lo è.

A proposito di serie tv: si dice che abbiano in appalto la narrazione della quotidianità con una capacità penetrativa che un tempo era appannaggio solo della letteratura. Ha senso confrontare i due ambiti?

No. La tv resta un canale molto diverso rispetto alla scrittura, non c’è possibilità di un’interazione profonda tra i due mezzi. La letteratura consente di mantenere intatta la sua autenticità, aggirando censure sotterranee e vincoli che la tv, inevitabilmente, ha. Soprattutto perché per me letteratura non significa solo intrattenimento narrativo, ma qualcosa di progressivo per il pensiero, in grado di sensibilizzare il lettore e di ampliarne gli orizzonti progettuali. Per questo rimane la dimensione espressiva a me più congeniale.

Ha parlato di “sensibilizzazione”. Lei conduce su TgCom24 La versione di Lilin, in cui spesso tratta temi di geopolitica. Se si suddividesse il mondo in mondialisti e identitari, lei sembrerebbe avere una simpatia per i secondi.

Non credo alla contrapposizione politica tra fautori della globalizzazione e sovranisti. È una semplificazione fuorviante, non sta lì il punto della questione. Nel programma provo a fornire un punto di vista alternativo su ciò che accade nel mondo, soprattutto in quelle aree che conosco piuttosto bene, portando alla luce fatti e informazioni. E provo a scardinare il luogo comune che vorrebbe imporre un’unica morale dominante, propugnata dai buoni, dai difensori del politicamente corretto, su qualsiasi altra forma di pensiero divergente.

Mi faccia un esempio.

Il recente caso di Ong e immigrazione. Se un esponente della Procura di Catania lancia un allarme su potenziali modi di operare non sempre trasparenti legati al traffico di esseri umani, credo sia un’occasione utile per approfondire la questione mettendo in discussione, se necessario, anche come è stato trattato il problema dei migranti fino a oggi. Invece una certa visione del politicamente corretto impone che nessuna critica possa essere avanzata in proposito. Neanche se fosse utile per tutelare i migranti stessi. Credo tuttavia che coltivare il dubbio sia salutare. Sempre. E confrontarsi con chi ha opinioni differenti, sia il sale della democrazia.

L’ambiente letterario italiano è vittima del politicamente corretto, secondo lei?

Direi che il rischio più grosso che possa correre uno scrittore, a qualunque latitudine, sia il narcisismo letterario. La forma più infida di narcisismo. Controproducente sul piano creativo, mette a repentaglio la possibilità di mantenere uno sguardo lucido sulla contemporaneità.

Quando si diventa scrittori narcisisti?

Quando uno scrittore rimane stritolato nel meccanismo tritacarne della visibilità mediatica che crea un problema comportamentale. Si sente ombelico del mondo, diventa un tuttologo a buon mercato, pontifica su ogni argomento e smania per apparire sui social o in tv. È un circolo vizioso. Colpisce scrittori, cantanti, artisti in genere.

Che cosa deve fare uno scrittore per evitarlo?

Facile. Deve scrivere con onestà e non smettere di farlo. Purtroppo, in Italia, la letteratura ha le stesse dinamiche della discografia. Si scrivono tantissimi libri e solo pochi di essi rimangono in catalogo. Ciò innesca negli autori la voglia pazza di inventarsi mille trovate pur di rimanere nell’immaginario e ottenere visibilità. Io stesso, a volte, ho corso questo rischio. Ma l’ho aggirato scegliendo di apparire solo per parlare di argomenti che conosco.

Scrittori si diventa?

Non si può scegliere di diventare scrittori. O lo si è, e allora si riesce a sviluppare la capacità di narrare, affabulando i lettori con parole progressive per il pensiero, o non lo si è, e allora si scimmiottano comportamenti o mode, scadendo nel cliché.

Che cos’è, per lei, la letteratura?

Ciò che di scritto rimarrà attuale anche tra cento o duecento anni.

A che cosa sta lavorando ora?

Uscirà presto un mio nuovo libro. Riprenderà la tradizione russa della “novella composta”. Tante storie apparentemente distinte tra loro che, unite, determinano un’unica sostanza narrativa. Saranno corredate da alcuni miei disegni di tatuaggi, affiancati alle parole. Del resto, ho imparato a tatuare quando avevo 8 anni. Ho iniziato a scrivere romanzi soltanto a 29.

Ha parlato della tradizione letteraria russa, pertanto le chiedo un commento sulla situazione sociopolitica della Russia, dal suo punto di vista.

La Russia è un Paese uscito relativamente da poco da una dittatura di classe comunista. Ha dovuto reinventarsi dopo aver azzerato il proprio sistema governativo. Sta vivendo un momento di particolare evoluzione economica e culturale. La situazione è ancora lontana, per certi versi, dal modello di democrazia occidentale. Ma è giusto che lo sia. La Russia sta compiendo un’evoluzione graduale. Abbraccerà generazioni, prima di raggiungere i propri equilibri. Certi cambiamenti non possono avvenire dall’oggi al domani, sarebbe innaturale. Quando in occidente si scrive sui “cattivi russi”, ci rido su.

Forse lo si scrive quando si parla di battaglie sui diritti civili.

Penso ai diritti delle comunità omosessuali. Pensare che la Russia sia un Paese omofobo è una semplificazione a buon mercato. Ai tempi del comunismo, c’era un articolo dl Codice Penale che metteva al bando l’omossesualità, pena l’incarcerazione. Per i russi è stato un tema molto doloroso, tanti artisti e uomini di cultura, anche ai tempi degli zar, erano gay. Un’evoluzione di mentalità sta avvenendo, ma è un cammino da compiere senza forzature. Se l’occidente non comprende ciò, rischia di ottenere l’effetto contrario. Senza contare che, purtroppo, anche in occidente avvengono episodi di omofobia riconducibili a convinzioni socio-politiche sbagliate, ma non se ne fa certo una colpa a tutti gli occidentali. O, ancora, l’occidente per convenienza fa affari con l’Arabia Saudita senza battere ciglio, e in quel caso si tratta davvero di un Paese che applica pene repressive sulle libertà individuali.

Il futuro è nel dialogo Europa-Russia? O nell’idea di Eurasia cara ad alcuni pensatori?

La cosiddetta Eurasia è un concetto molto discusso, diventato però una dottrina sventolata in Russia da nazionalisti estremisti. Io penso che dei meccanismi di dialogo siano già attivati. L’essenziale è che i binari restino autonomi per ciascuno dei due dialoganti, senza prevaricazioni.

Ha conosciuto il carcere in Russia, introduce un programma sulle carceri americane. Le chiedo: le è capitato di visitare un penitenziario italiano?

Spesso. O per presentare libri, o quando ho condotto Le regole del gioco, su Dmax. Un esperimento sociale come I miei 60 giorni all’inferno può smuovere la sensibilità italiana su un tema ancora considerato un tabù. La tv ha bisogno di più esperimenti sociali e di meno talent show.

Non le piacciono i talent.

Generano mostri. Diffondono un modello culturale sbagliato presso i giovani. Per un ragazzo che vince, cento ne escono traumatizzati e smaniosi di apparire, inserendosi nel circuito mediatico di cui parlavamo prima. Per questo dico ai giovani: guardate I miei 60 giorni all’inferno, il target prediletto siete voi.

Perché proprio i giovani?

Mi capita di tenere lezioni all’università e di avere come studenti alcuni rampolli di famiglie italiane facoltose. Di loro mi colpisce, nonostante l’abbondante disponibilità economica, il desiderio di imitare in tutto e per tutto il modello gangsta rap delle periferie metropolitane d’America. Per pura moda. Spendono un sacco di soldi in macchine costose, si atteggiano a criminali, si fanno selfie ostentando una vita di ricchezza e menefreghismo. Io i criminali veri li ho conosciuti, questi ragazzetti in mezzo a loro non durerebbero un secondo.

Qual è la differenza tra il modello culturale dei giovani in Italia e quello da lei vissuto in gioventù?

Senza retorica: io sono nato davvero in un quartiere poverissimo di una città disagiata. Mio nonno era un criminale, ma mi ha lasciato in dote una grande lezione morale, mio padre, pur con un’etica precisa, rapinava banche. Hanno passato la vita a sparare. Io steso giravo con pistola e coltello in tasca. Ma per me e i miei amici, il sogno era poterci permettere abiti decenti, non tradire mai principi di base come la buona educazione e il rispetto verso gli anziani. Condurre una vita normale. Conoscevamo bene le realtà povere e volevamo affrancarci da esse per diventare persone migliori.

Oggi in Italia accade il contrario?

Mi stupisco quando vedo chi nasce in un contesto agiato che, anziché approfittarne per viaggiare, leggere, conoscere il mondo, spreca il suo tempo fingendo di essere un criminale del ghetto. La finta ribellione è incomprensibile, non ha senso.

Oggi il vero ribelle è il conformista?

Senza dubbio. Diceva Gramsci: “Studiate, perché un giorno avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”. Le vere rivoluzioni partono dal pensiero, dalla conoscenza, che è il petrolio dell’anima. Non dall’ostentazione di un consumismo irritante per riempire vuoti esistenziali.

 

Gabriele Gambini

 

(Nella foto Nicolai Lilin)