Pubblicato il 24/05/2018, 19:03 | Scritto da Gabriele Gambini

Stefano Rapone tra stand-up, comicità giapponese e Trio Medusa

Stefano Rapone tra stand-up, comicità giapponese e Trio Medusa
Esponente della stand-up nostrana, autore dei testi del Trio Medusa, laureato in lingua giapponese: faccia a faccia con un comico italiano che racconta il suo percorso e dice la sua sui linguaggi contemporanei che innescano la risata.

Stefano Rapone: In Italia, nel futuro, ci saranno punti d’incontro tra
stand-up e cabaret.

«Quando penso a uno spettacolo comico, tengo a mente che il mio scopo non è denunciare problemi, semmai essere parte integrante dei problemi stessi», dice Stefano Rapone, classe 1986, romano. Parlare con lui significa fare un giro sul treno della comicità italiana del futuro. Che sarà globalista, contaminata, influenzata dal linguaggio della stand-up, abrasiva, non necessariamente rottamatrice della vecchia commedia dell’arte. Rapone già di suo appare contaminato. Il lettore interpreti la parola come meglio crede. Attingendo dalla sua vita in ordine sparso: si laurea in lingua e cultura orientale specializzandosi in giapponese, disegna fumetti che hanno titoli rassicuranti come Marco Travaglio Zombi e Padre Pio Vampire Hunter.

Poi intuisce che salire sul palco e verificare di persona l’innesco della risata nel pubblico è più appagante. Tiene spettacoli in club underground nipponici ed europei. Scoperto dall’autore Francesco Lancia, partecipa al CCN di Saverio Raimondo su Comedy Central ed è nella squadra di autori del Trio Medusa, attualmente al lavoro su Takeshi’s Castle. Parla con accento capitolino e voce bassa.

Dal disegnare fumetti a diventare comici il passo è breve?

La passione per la comicità me la porto dietro da sempre. Prima ho iniziato a esprimerla coi fumetti. Poi, vedendo gli spettacoli dei grandi maestri di stand-up, ho capito che l’elemento in comune tra i miei fumetti e quegli show era l’intento di far ridere un pubblico. Da lì ho iniziato a scrivere per salire su un palco. Mettendoci la faccia.

Si è laureato in lingua giapponese.

La passione per il Giappone nasce di pari passo con quella per i fumetti. Ricordo che, durante uno dei miei primi viaggi a Tokyo, sono riuscito a esibirmi in un locale undergroung davanti a un pubblico di anglofili, ma anche alla presenza di qualche aspirante comico giapponese.

Vincendo la tradizionale diffidenza dei giapponesi verso il gaijin, lo straniero?

I giapponesi sono un popolo molto accogliente verso lo straniero. Certo, integrarsi in Giappone puntando a lavorare in pianta stabile è proibitivo per molte ragioni. Ma il Paese non lesina su gentilezza e vicinanza. Sono in contatto tuttora con diversi comici nipponici e, nonostante le differenze culturali, anche da loro funziona come da noi: se sei bravo, prima o poi si accorgono di te.

Sulla comicità giapponese torneremo tra poco. Prima però balza all’occhio una sua caratteristica: l’internazionalità. Si è esibito anche in club europei. Significa che il suo modo di intendere la comicità non ha particolari vincoli territoriali?

Alcune mie cose sono difficili da tradurre. Se sfrutto una battuta con un riferimento al fascismo, per esempio la classica: “Quando c’era lui, i treni arrivavano in orario”, all’estero difficilmente la comprenderanno. Ma di solito il mio repertorio esula dalla contingenza e dalla territorialità degli argomenti.

Quando sale sul palco è debitore della stand-up. In quale modo la rielabora per adattarla al suo gusto?

Il mio stile prevede battute secche e una sperimentazione di linguaggi che rielabori l’esperienza della stand-up. Non cerco un filo conduttore che attinga necessariamente dalle mie esperienze di vita, ma porto in scena un personaggio che possa garantire criteri di immedesimazione in chi lo guarda. Con una particolarità. Non commento la realtà denunciando problemi, semmai sono parte integrante di quei problemi.

È la logica della stand-up, raccontare prima di tutto la verità delle cose.

Non tanto. Io sul palco dico l’opposto di quel che penso realmente. Poi faccio capire che cosa penso con battute progressive, svelando il paradosso.

Con una buona dose di satira dentro?

A volte. Però chiariamo un equivoco spesso diffuso: fare stand up non significa solo sovrapporsi al linguaggio della satira. La satira è parte della stand-up, ma la stand-up è anche una forma di monologo che si affranca dalla satira e che soprattutto ha nell’universale, non nel contingente, il suo riferimento principale.

E quando scrive per il Trio Medusa?

Il primo passo è intercettare argomenti e linguaggi che possano stare benissimo in bocca a loro. La comicità del Trio non nasconde la battuta per poi farla emergere in un secondo tempo. Anzi. È molto diretta e concreta. E non è mai divisiva. Punta sul linguaggio dell’intrattenimento, non deve scuotere, semmai coinvolgere. In genere, come squadra, prepariamo i testi e i ragazzi del Trio sono bravissimi a rielaborarli facendoli propri e giocandoci su.

Si dice che nella tv italiana generalista un grande spettacolo pop sia ben accetto, ma la stand-up divisiva e politicamente scorretta sia guardata con sospetto. Forse anche per la mancanza di seconde serate in grado di offrirle asilo.

Sono fiducioso sul futuro. L’apertura verso altri generi meno tradizionali prima o poi arriverà. Per ora Rai e Mediaset hanno tenuto tirato il freno a mano. Ma è una questione generazionale. Le nuove leve di pubblico hanno Netflix, Youtube, Amazon Prime, i social. Conoscono la stand-up anglosassone e quella italiana. Ci si arriverà anche sulla generalista, magari con l’inserimento delle nuove generazioni nei ruoli manageriali. Fermo restando che, oggi, la tv nel senso classico del termine è utilissima a farsi conoscere, ma non più fondamentale come un tempo.

Lei investe sui social?

Ora come ora sono molto impegnato a lavorare col Trio Medusa e ho meno tempo per star dietro alla rete. Però conosco comici emergenti che hanno investito sui social con effivacia per farsi conoscere dagli organizzatori di eventi. Canali come Comedy Central, poi, aiutano parecchio.

La stand up rimpiazzerà in Italia i tormentoni da cabaret debitori della commedia dell’arte?

È un discorso complesso, ma penso che prima o poi si troverà un punto d’incontro. Nel senso che chi vorrà approcciarsi al monologo da cabaret potrebbe trovarlo contaminato da tematiche o stili tipici di quello della stand-up. Viceversa, è anche vero che, in certi casi, alcune tematiche o modi di fare del cabaret potrebbero essere usati nella stand-up. Questo perché pur essendo due generi diversi, hanno molti punti in comune. Non metterei la mano sul fuoco sull’utilizzo del tormentone nella stand-up, anche se di recente mi è capitato di vederlo usato in uno spettacolo americano: penso a Kevin Hart nel suo ultimo show, quando chiama a raccolta le donne di colore usando sempre la stessa battuta.

Dunque la comicità italiana del futuro sarà un sincretismo dei due generi?

Sarà quella che piacerà al pubblico. Noi comici abbiamo il compito di proporre quello che riteniamo valido e che diverte noi in primis, ma saranno gli spettatori a premiarlo o bocciarlo, determinando la direzione.

La rete però contamina i territori. Globalizza.

Vero. Ma va tenuto conto che in Italia continuiamo a ridere quando ci viene solleticata la pancia, mentre nei paesi anglosassoni si punta di più sul sarcasmo, sulla battuta cerebrale. Penso che comunque si arriverà a un bilanciamento anche in questo caso.

E in Giappone?

Ho notato alcuni aspetti. Da un lato, la loro è una comicità molto fisica e infantile. Per esempio: esiste uno show giapponese molto popolare che consiste nel mettere in una stessa casa dieci comici con un premio di 10 milioni di yen a disposizione del comico che per primo riesce a far ridere i colleghi rimanendo serio. Gli espedienti trovati sono spesso estremi e fisicamente allucinanti. C’è chi si spoglia, chi si dilata le chiappe, chi arriva a defecare davanti agli altri.

Già Takeshi’s Castle, quando giunse da noi sotto forma di Mai Dire Banzai, aveva tratti demenziali.

Vero. Però, intendiamoci, il Giappone non è solo quello. Esiste anche una comicità più sofisticata. Si chiama Manzai. Prevede una formula standard: una coppia di comici alla Franco e Ciccio. Uno fa lo stupido, l’altro è molto serio. Innescano una sequenza di battute su argomenti diversi mantenendo inalterati i loro profili. La formula ha così successo che in tv la replicano come una catena di montaggio, allestendo di volta in volta nuove coppie e ripetendo la stessa tipologia di spettacolo, declinata in contesti differenti. Con tanti giochi di parole.

Poco spazio per la satira all’occidentale, dunque.

Poca. Il Giappone è un Paese economicamente florido, con una cultura tradizionale precisa e delle regole irregimentate sul lavoro. La gente quando torna a casa ha voglia di rilassarsi con formule non troppo pesanti. La loro comicità è anche un’evasione a un contesto formale.

Stefano Rapone coltiva desideri particolari per il suo futuro?

Amo la comicità che assembli battute secche a una forma narrativa simile a quella delle serie tv. A metà tra stand up e sketch. Mi piacerebbe realizzare qualcosa di simile in futuro.

In Italia è stato colpito da qualche novità televisiva interessante?

Tutta colpa della Brexit di Francesco De Carlo è stato un ottimo show. Un’eccellente scusa per viaggiare e raccontare qualcosa con una formula efficace. Mi piace anche ciò che fa Pif. Amo lavorare col Trio Medusa e devo moltissimo a Francesco Lancia, che mi ha permesso di collaborare con loro e ha fatto il mio nome per realizzare le interviste impossibili assieme a Saverio Raimondo e Chiara Galeazzi durante CCN.

Dicevamo che nella comicità conta l’efficacia. Ma quando ci si trova su un palco e il pubblico non ride?

Talvolta capita. Si può provare a interagire con la platea, oppure andare dritti, sfruttando qualche leva di sicura efficacia del proprio repertorio. Il fallimento ha di per sé un valore formativo. Ti insegna ad adottare stratagemmi di alleggerimento e di comprensione del pubblico.

Gabriele Gambini

(nella foto Stefano Rapone)