Pubblicato il 06/12/2021, 18:01 | Scritto da La Redazione
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Demetrio Volcic, una vita oltrecortina. Spiato dal Kgb

La Rai, il Kgb e un nome in codice: Vicolo Volcic, una vita intera a raccontare l’Est

La Stampa, pagina 29, di Cesare Martinetti.

Nome in codice “Vicolo”, numero di protocollo 2313. Così lo avevano battezzato e classificato i servizi segreti cecoslovacchi. Un soprannome misterioso, forse soltanto un anagramma zoppo di Volcic, che però gli rimase appiccicato anche nel suo passaggio a Mosca, sotto la diretta osservazione del Kgb. Cosa ci fosse dentro il suo dossier, Volcic non riuscì mai a scoprirlo quando dopo il ‘91 rivolse una candida richiesta a tutti i Paesi ex comunisti nei quali aveva lavorato: «Egregi signori, voi ora siete democratici e vantate la trasparenza dei vostri servizi. Sono un giornalista che ha speso una vita all’Est, sareste molto gentili a raccontarmi che cosa pensavate di me».

A questa piccola povokacija non arrivò mai risposta. Caduti i regimi erano rimaste le vecchie abitudini, «i dettagli». La verità – diceva – è che «il potere non muta la sua natura e c’è sempre un nuovo padrone dietro la porta pronto a entrare. Non bussa, sfonda e irrompe». Non si può non partire da questa immagine sovietica e insieme postsovietica per ricordare Demetrio Volcic, scomparso ieri a Gorizia, pochi giorni dopo aver compiuto 90 anni. È stato uno dei corrispondenti simbolo della Rai, la sua faccia con il colbacco in testa, un grosso microfono nella mano guantata, fiocchi di neve leggera sullo sfondo della piazza Rossa, per gli italiani riuniti a tavola intorno al Tg delle 20 era una presenza quasi famigliare.

Una vita oltrecortina

Dal 1966 in poi ha raccontato il mondo dell’Est da Praga, Varsavia, Pechino, Vienna, Bonn. Ha percorso i Balcani e attraversato gli orrori della guerra in cui si è dissolta la Iugoslavia e che racchiudeva simbolicamente gli abissi etnici che le dittature comuniste avevano surgelato, ma non risolto. Ma il nome di Volcic è legato soprattutto a Mosca, dov’è stato testimone dell’era Breznev, fino all’avvento di Gorbaciov. Nell’89 era a Berlino, a raccontare la caduta del muro. Del capodanno 1990 ha ricordato nel suo straordinario libro biografico (Est, Mondadori editore, 1997) i festeggiamenti anticipati per la fine del secolo “mattatoio”, con la folla accalcata sul prato davanti al Reichstag che aspettava l’annuncio della riunificazione tedesca.

Dal ’91 in poi fu di nuovo a Mosca, per la fine dell’era sovietica e l’avvio di quella “democratica” nella transizione di Boris Eitsin. Demetrio Volcic era nato a Lubljana, capitale della Slovenia, il 22 novembre 1931, ai margini dei Balcani. «Di quella regione – si legge in Est – ho respirato idee, giudizi e pregiudizi. L’aria di casa era centreuropea. Viaggiando per quel mondo ci si intendeva su molte cose senza parlare. Da giovane ho fatto una vera e propria cura ingrassante di letteratura slava. Nulla di quelle parti mi era particolarmente straniero». Era un uomo colto, spiritosissimo, un meraviglioso conversatore, l’ironia si mescolava all’autoironia quando raccontava col sorriso di aver “bucato” l’ultimo golpe sovietico, quello dell’agosto 1991 contro Gorbaciov. Era in vacanza in Sardegna, a Stintino, e la notizia gliela portarono i carabinieri in spiaggia, insieme al messaggio del suo direttore che gli chiedeva di rientrare immediatamente a Mosca. Ma quel racconto non era solo dettato dal gusto dell’aneddoto, era insieme una lezione di giornalismo e un richiamo all’umiltà di fronte all’imprevedibilità della Russia.

Un fuoriclasse del giornalismo

Volcic apparteneva a quell’élite giornalistica detta dei cremlinologi capaci di maneggiare i codici del potere sovietico, come Giulietto Chiesa, Enzo Bettiza o il francese Michel Tatu di Le Monde. Eppure, nemmeno lui aveva previsto il colpo di coda di un regime morente. Come tutti loro, Volcic portava in sè lo stigma del mistero russo, quella matrioska sorridente dentro la quale si cela un enigma in pendolo perenne tra Europa e Asia. Nelle pagine dei suoi libri c’è il dettaglio del cronista che dice di non aver conservato appunti, quel «piccolo artigianato che alla fine della giornata finisce spesso nei cestini di cartacce al cambio degli alberghi».

Nel rievocare il racconto dei protagonisti dell’Est in un susseguirsi di aneddoti in cui la letteratura si confondeva con la vita Volcic accendeva la memoria del cuore. Quando scoprì che i servizi segreti gli avevano attribuito il nome in codice di “Vicolo”, insieme all’inevitabile amarezza, confessò di aver provato anche gioia e trepidazione: «Era uno dei sogni di tutti i ragazzi appassionati di gialli internazionali». Indubbiamente avrebbe potuto essere il protagonista di un romanzo di John le Carré o di Graham Greene.
(Continua su La Stampa)

 

(Nella foto Demetrio Volcic, a destra, intervista Mikhail Gorbaciov)