Pubblicato il 03/09/2021, 11:34 | Scritto da La Redazione

Paolo Sorrentino: Maradona mi ha salvato la vita

Paolo Sorrentino: «Il mio film sul dolore scritto in due giorni»

Corriere della sera, pagina 38, di Valerio Cappelli.

«È la storia di un ragazzo di 17 anni che perde i genitori», dice Paolo Sorrentino. È stata la mano di Dio, il suo film più personale (su Netflix dal 15 dicembre) lo racconta così. I suoi genitori nel 1987 comprano una casa a Roccaraso, lui resta a Napoli per andare a vedere Maradona allo stadio. Il padre e la madre moriranno per una fuga di monossido di carbonio. Il regista lascia Cannes che lo ha consacrato, torna a Venezia (a 20 anni dall’esordio di L’uomo in più) e ottiene nove minuti di applausi alla fine della proiezione. Sempre col suo attore feticcio Toni Servillo. Che qui fa suo padre, mentre l’alter ego di Paolo giovanissimo è Filippo Scotti, che nel film ha l’orecchino come lui.

Cosa ha trovato in lui?
«La mia timidezza e inadeguatezza. Ha sbaragliato tutti, il mio sogno è che gli attori si dirigano da soli».
Com’è nato il film?
«A un certo punto si fanno i bilanci, ho capito che c’era stata una grande parte di amore nella mia vita di ragazzo, e una dolorosa. E si poteva declinare in un racconto cinematografico dove si ride e si piange, come nella vita. Ha delle analogie col bel film di Bellocchio su suo fratello».
È vero che l’ha scritto in 48 ore?
«Sì, non è un virtuosismo, ma ci avevo pensato tanto, scriverlo è stato un processo più semplice. Anche in altri film avevo messo cose mie camuffandole, mescolandole nei personaggi. Questo è senza filtri, dichiaratamente autobiografico, ma non ha senso distinguere le cose vere da quelle inventate».
Ma l’emotività…
«Come l’ho tenuta a bada? Per fortuna ci sono problemi di ordine pratico che non tengono conto della mia storia. Se altre persone si identificheranno, se si vedranno specchiate nel film, significa che la mia sofferenza sarà divisa a metà».

Il suo stile glamour, la sua fascinazione estetica qui sono lontani.
«Il film è esclusivamente concentrato sui sentimenti. La prima parte è onirica e ci sono richiami al mio passato, è una sorta di congedo. Non è che mi pento, qui si richiedeva una cifra stilistica diversa».
La sua famiglia com’era?
«Chiassosa, rumorosa. Mamma (Teresa Saponangelo) era una burlona che ondeggiava tra felicità e tristezza. Gli anni ’80 erano un mondo di scherzi che oggi stridono un po’, non c’erano i cellulari, era un’altra vita».
C’è il suo mentore.
«Il regista Antonio Capuano. Con lui cominciai a lavorare. Non ho mai raggiunto i suoi vertici di vitalità esasperata. Mi illuminò sull’equivoco che non basta avere un dolore per una specie di patente sulla creatività»

Il titolo?
«È una bella frase, paradossale perché pronunciata da un calciatore sulla sola parte del corpo che non può usare, dopo il gol che Maradona segnò di mano all’Inghilterra».
Maradona cosa rappresentò a Napoli?
«Un Avvento: apparve, non arrivò, in una città che nel calcio non aveva vinto niente. Una semi divinità. C’è qualcosa di misterioso, fu un liberatore. Napoli veniva da anni di violenza e camorra, c’era stato il terremoto. Città promiscua, è come fare un safari a piedi senza l’aiuto della jeep quando arrivano i leoni. A Napoli trovi tutto, i leoni e animali più innocui; bellezza del sacro ed erotismo del profano si tengono insieme con leggi arcane e spesso incomprensibili».
(Continua su Corriere della sera)

 

(Nella foto Paolo Sorrentino)