Pubblicato il 07/06/2021, 14:33 | Scritto da La Redazione

Marco D’Amore: Basta Ciro di Gomorra, ora cambio strada

Marco D’Amore: Basta Ciro di Gomorra, ora cambio strada
La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: il protagonista della serie “Gomorra” compie 40 anni fra pochi giorni con un libro, un film e l'addio al personaggio Ciro Di Marzio. E ora? «Credo di avere molte più possibilità come regista e autore che non come attore. Lo dico in pace con me stesso».

Marco D’Amore: «Per chiudere con Ciro gli ho tolto la bellezza»

La Repubblica, pagina 28, di Arianna Finos.

Marco D’Amore festeggia i 40 anni con un libro, un film e l’addio a Ciro Di Marzio. II romanzo è Vesuvio, scritto con l’amico Francesco Ghiaccio, il thriller è Security, dal romanzo di Stephen Amidon, riambientato a Forte Dei Marmi, su Sky e Now da oggi. L’ultima stagione di Gomorra è la quinta, le riprese sono terminate una decina di giorni fa, con commozione e lacrime social.

Security è un thriller che fotografa la società di oggi: l’ossessione della sicurezza, la paura dell’estraneo, la violazione della privacy. Quanto il tema influenza la scelta di un film?
«Per me è fondamentale mischiare due cose: l’esplorazione artistica, il linguaggio del mezzo con cui ti misuri e l’indagine della realtà intorno a noi, i temi che la agitano e animano. Ho fatto dieci film, uno ogni due anni, anche in ruoli collaterali, ma in storie che ambiscono parlare del presente. Security lo fa in modo incredibile, con una lungimiranza che solo l’arte può avere. Abbiamo finito il film un mese prima del primo lockdown, alla fine il personaggio dice: “Che tragedia quando le persone scendono in strada solo quando condividono un malessere, altrimenti se ne stanno barricati in casa”».
Nel film gli adulti, più potenti e ricchi, schiacciano gli adolescenti.
«La depravazione dei costumi di una società la vedi dall’investimento sulla gioventù e nel rispetto della vecchiaia. Siamo un Paese che considera poco queste due età. In Security da chi ti aspetti saggezza e conforto arriva invece la violenza, c’è una mancanza di tutela dei giovani e nuclei familiari in cui tutto traballa, si è soli e senza conforto».

Vesuvio racconta di Federico e Susy, adolescenti figli di boss. Un’età che lei e Ghiaccio avete affrontato in Dolcissime e in parte in L’Immortale.
«Vesuvio è una storia che nasce da un principio non solo narrativo, ma emotivo, legato a un periodo della vita verso cui noi abbiamo un ricordo splendido. Anche e soprattutto, però, perché questa età è vessata, oggi, da chi la giudica con superficialità. I ragazzi bollati come sciatti, disinformati, disattenti. Siamo entrati in contatto con molti giovani nelle scuole e abbiamo capito che il loro è solo un altro modo di osservare il mondo. E patiscono il giudizio e la violenza con cui gli adulti decidono cosa devono diventare. Perciò abbiamo scelto due ragazzi per cui la strada sembra segnata, ma che attraverso un percorso di crescita emotiva e culturale si appropriano del loro destino e ribaltano il campo. L’idea è costruire intorno a questi ragazzi la convinzione che ci siano altre possibilità che hanno il diritto di percorrere. Gli adulti di Gomorra hanno scavallato questa possibilità».
Sta montando gli episodi di Gomorra. Come ha chiuso i conti con Ciro Di Marzio?
«Gli ho tolto la bellezza. La cosa migliore che potessi ottenere. Se confronti due immagini della prima e dell’ultima stagione, il cambiamento è impressionante. Con Salvatore Esposito abbiamo fatto trasformazioni eclatanti che di rado ci si consente in un racconto seriale, in cui invece si costruisce un rapporto di fedeltà con il pubblico che costringe il personaggio a restare uguale. Abbiamo piegato i nostri alle vicende, perciò nell’ultimo capitolo Ciro non poteva che apparire privato di tutto ciò che lo aveva connotato dall’inizio: quel fascino guascone e piratesco che lo rendeva attraente anche da un punto di vista erotico; lo dico dall’alto della considerazione di questo termine. Abbiamo raccontato come certe vite gravano non solo sull’anima, ma sul corpo. Non ho avuto paura di trattarmi male, in questo senso. Lo dico perché sento uno svilimento del nostro mestiere, sempre più legato a certi ideali di bellezza, con la paura di sfiorirsi per raccontare anime».
(Continua su La Repubblica)

 

(Nella foto Marco D’Amore)