Pubblicato il 31/05/2021, 10:46 | Scritto da La Redazione
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La Rai servizio pubblico? Ma fatemi il piacere!

La Rai servizio pubblico? Ma fatemi il piacere!
La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: Aldo Grasso prende di petto viale Mazzini e auspica un repulisti di Mario Draghi. «Se alla guida di un sistema complesso, com'è quello che enfaticamente è ancora chiamato “la più grande industria culturale del Paese”, non vengono scelte le persone più preparate, finisce che il numero di incapaci aumenta a discapito della professionalità».

Rai, l’insanabile paradosso

Corriere della sera, pagina 28, di Aldo Grasso.

Il paradosso di Viale Mazzini: da molti anni, tutti i leader politici affermano con convinzione che la Rai va liberata dal condizionamento dei partiti, ma poiché la Rai è il primo bottino di guerra dei vincitori delle elezioni, i partiti continuano a governarla. È possibile uscire da questa contraddizione? L’attuale statuto della Rai prevede che la composizione del Cda sia così definita: due eletti dalla Camera dei deputati e due eletti dal Senato, due designati dal Consiglio dei ministri, uno designato dall’assemblea dei dipendenti della Rai. Se l’effetto Draghi riuscisse a squarciare il velo d’ipocrisia che spesso avvolge i discorsi sulla Rai, imponendo due figure apicali di grande spessore, ovvero il Presidente e l’Amministratore Delegato, forse potremmo risparmiarci molti discorsi moralistici sulla lottizzazione.

Il problema principale non è solo la pratica dello spoil system (sistema del bottino), consuetudine affermatasi negli Stati Uniti d’America tra il 1820 e il 1865. Il vero problema è il clientelismo: le forze politiche al governo, infatti, tendono a distribuire a propri simpatizzanti (spesso non all’altezza del compito) la titolarità di incarichi pubblici. Siamo di fronte alla classica «entropia della competenza». Se alla guida di un sistema complesso, com’è quello che enfaticamente è ancora chiamato «la più grande industria culturale del Paese», non vengono scelte le persone più preparate, finisce che il numero di incapaci aumenta a discapito della professionalità. Lo ha spiegato molto bene Sabino Cassese sul Corriere: «Se il personale pubblico, all’entrata, alla base, non viene selezionato e accede, poi, al vertice per decisione delle forze politiche, non possiamo aspettarci che gli uffici pubblici siano composti di competenti e tecnici, e che rispondano alle esigenze della società alla quale dovrebbero offrire il loro servizio».

Ha ancora senso il servizio pubblico?

Uffici pubblici? Servizio? Una domanda che da tempo aspetta una risposta è questa: si può ancora attribuire alla Rai la funzione di servizio pubblico? Con un po’ di sfrontatezza dovremmo rispondere che nel campo delle comunicazioni il servizio pubblico non è mai esistito, che la tv delle origini per la sua connaturata potenza ha svolto questo servizio in tutto il mondo (dall’educazione linguistica all’arricchimento dei saperi), che il s.p. è il volto gentile (una di quelle favole belle che consentono ai governanti di collocarsi nella posizione di «illuminati») della cultura del monopolio, della «Tv di Stato». L’aveva già teorizzato l’inventore stesso del s.p., il mitico direttore c della BBC (nata come ente commerciale) quando sosteneva che «la forza bruta del monopolio deve essere utilizzata per trasmettere agli ascoltatori la parte migliore della cultura». Noi tutti viviamo ancora nel mito della Rai come s.p. (e ci sono alcuni settori che tengono nobilmente in vita questa fiamma; pensiamo a Rai Cultura, al ruolo della fiction, alle Teche, alle formidabili trasmissioni sulla storia) anche se la maggior parte dei programmi trasmessi dalle tre reti generaliste potrebbe andare in onda su qualsiasi rete commerciale.

All’opposto, ci sono molti programmi d’informazione delle tv commerciali che hanno lo stigma del servizio. Per oltre 70 anni, la tv generalista ha avuto una sua precisa collocazione, ha svolto i suoi compiti offrendosi semplicemente allo sguardo dello spettatore. L’esplosione del web e il ruolo delle grandi piattaforme distributive hanno totalmente cambiato lo scenario mediatico: bisogna confrontarsi con il nuovo ruolo dello spettatore e con i grandi player multinazionali, sia quelli che operano in streaming (come Netflix, Amazon Prime Video o Disney+) sia quelli che sono già oligopolisti della Rete (Google, anche con YouTube, Facebook…). Proprio per questo non sarebbe inutile, prima dell’insediamento di una nuova governance, ridefinire il concetto di s.p., almeno nei termini di linea editoriale.

I numeri della Rai

Per anni, la Rai ha svolto un compito di collante, di «welfare formativo», al pari dell’istruzione o della sanità pubbliche. Ma ora si fa un’enorme fatica ad accostare i compiti dell’attuale Rai a quelli della scuola o della sanità (pur riservando a istruzione e sanità un atto di fede). Ha ancora senso tenere in piedi una struttura elefantiaca (13.000 dipendenti, 15 canali televisivi, più tutte le reti radiofoniche) che ha i conti in rosso (si parla di un buco di circa 750 milioni) quando ogni anno nelle sue casse entrano quasi un miliardo e 800 milioni di canone pagato dai cittadini con le bollette elettriche, più gli introiti pubblicitari? È solo colpa di dirigenti incapaci o, fatalmente, la Rai Is the New Alitalia? Ci vorrebbe un Mario Draghi per la Rai, auspicano in molti. Ma forse una simile, desiderabile eventualità da sola non basterebbe.
(Continua su Corriere della sera)

 

(Nella foto la sede Rai di viale Mazzini a Roma)