Pubblicato il 21/05/2021, 19:05 | Scritto da La Redazione
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Morgan ricorda e celebra il suo maestro Franco Battiato

Morgan ricorda e celebra il suo maestro Franco Battiato
La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: l’ex leader dei Bluevertigo ricorda il cantautore siciliano attraverso l’esegesi dei testi delle sue canzoni.

Dedicato al mio Battiato

La Repubblica, pagina 31, di Morgan.

Battiato era nato sulle ceneri della poesia, era un dadaista, un surrealista, chiamiamolo come vogliamo, di certo si tratta di avanguardia. Lo è stato dichiaratamente negli anni Settanta, in modo estremo, sperimentale, a costo di fare concerti davanti a tre persone e di vederle uscire dal teatro al primo pezzo. Ma ad ascoltare come raccontava lui quegli episodi c’era da sbellicarsi dal ridere, perché lui si divertiva come un matto a fare provocazione simulata e vera rivoluzione. Poteva fare di tutto e lo ha fatto, soprattutto quando si è messo in testa di fare successo sul serio, portando quella leggerezza, menefreghista di critica e conformismo, dentro l’universo della canzone e con la stessa ironia ha fatto il pop. Con le sue canzoni ha plasmato una generazione intera, una generazione che credeva fosse pop e poi in realtà ci scopriva dentro un universo intero, un mare sterminato di informazioni. Altro che provocazione!

Battiato aveva una sapienza vera. Ha creato capolavori di invenzione letteraria dove regnano bellezza, verità e novità come nessun altro ha saputo fare, mai esisterà qualcosa di simile a Battiato per stranezza e per bellezza, con lui era l’assurdo a prendere vita, l’impossibile a diventare reale. Molto è racchiuso in quella che io chiamo la “trilogia”, sono i tre album in cui, nel 1979, nel 1980 e nel 1981, realizza la sua idea di pop, L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone. Sono dischi importanti in tutti i sensi, per il suono, per i testi, per la produzione, e aprono la terza fase della sua carriera, dopo la seconda, sperimentale e d’avanguardia, e la prima, nella quale cantava musica leggera ed era avvolto nel torpore degli anni Sessanta, dal quale uscì trovando la direzione sperimentale che lo portò a vincere il Premio Stockhausen. Era avanti a tutti, faceva dischi molto belli, come L’Egitto prima delle sabbie, in cui non usava sintetizzatori, ma realizzava uno studio sugli armonici del pianoforte. Ma nel 1979 cambia tutto, si trasforma nel cantautore perfetto perché nelle sue canzoni la musica e il testo trovano una straordinaria forma di equilibrio. Un equilibrio che, comunque, aveva qualcosa di psichedelico, dove nulla c’entrava con nulla. Come in una delle sue canzoni più famose, Centro di gravità permanente, con un testo che è un elenco in cui gli elementi sono tutti sconnessi logicamente, narrativamente, semanticamente, ma quando arriva il ritornello arriva la connessione. E non perché è una sintesi, non perché è un riassunto, anzi è al di sopra del resto del testo e può essere totalmente sganciato sintatticamente, ma è esattamente il centro di gravità della canzone stessa. Come un cuore che tiene insieme tutto l’organismo, è il centro di tutto e mette in pratica il suo contenuto letterario, che è anelito a un desiderio di trovare ordine nel caos. Voglio un centro di gravità permanente, cerco un centro. Il ritornello è il centro stesso che lui sta cercando. Nelle canzoni italiane non si era mai visto un tale repertorio di immagini e di nomi messi in fila per creare una fonetica, ma anche per aprire lo spazio della percezione.
(Continua su La Repubblica)

 

(Nella foto Franco Battiato)