Pubblicato il 10/05/2021, 11:32 | Scritto da La Redazione

Michele Santoro elogia Salvini e riabilita Berlusconi

Michele Santoro: «Via Silvio, la giustizia è esplosa»

Libero, pagina 20, di Pietro Senaldi.

C’è più dignità in un killer della mafia che in un dirigente della Rai di oggi? La domanda sale dalla lettura di Nient’altro che la verità, il libro (Marsilio, 19 euro) con cui Michele Santoro si riprende la scena dopo anni di «rassegnata emarginazione». Si tratta di un’inchiesta, un saggio, un’intervista che sconfinano nell’autoanalisi su Cosa Nostra, l’Italia, la televisione e il giornalismo, frutto di una serie di incontri tra l’anchorman e Maurizio Avola, ottanta omicidi sulle spalle, artificiere della bomba che uccise il pm Paolo Borsellino e autore con il boss tuttora latitante Matteo Messina Denaro dell’assassinio del giudice Antonino Scopelliti. «Avola è un freddo, non si fa sconti e non chiede perdono, una sorta di Eichmann della mafia, sa di sangue come io so di Sud, e quando lo vedi avverti il peso di tutti i suoi morti; incontrarlo mi ha fatto capire che dovevo iniziare un percorso di autocritica, il libro si regge sull’alternanza tra la mia e la sua storia».

«Io come lui, due scappati dalla famiglia d’origine per entrare in un’altra», scrive Santoro nelle prime pagine del libro, destando lo scandalo dei perbenisti. «Mi ha colpito il fatalismo con il quale Avola si racconta, come se uccidere sia il suo destino immutabile» spiega l’autore, «e ho capito che lui è uno scienziato dell’assassinio, ma a muoverlo non è stata la sete di denaro o la disperazione, bensì la ricerca di rispetto e dignità, voleva l’approvazione della Famiglia Santapaola, ambiva a essere considerato il killer numero uno e a conquistare un posto nel mondo. Anche io, tutto quello che ho fatto nel giornalismo, l’ho fatto per ottenere rispetto, per difendere la mia dignità, il mio lavoro; ma ci sono riuscito solo in parte, visto che alcuni miserabili sedicenti dell’antimafia mi trattano da delinquente. Tanto per cambiare, aveva ragione Leonardo Sciascia: alla lunga le strutture emergenziali dell’antimafia si sono rivelate un intralcio al diritto e all’efficienza. Le similitudini con il killer naturalmente finiscono qui, con Santoro che lo immagina a preparare le bombe «con la medesima meticolosità che io mettevo nel costruire i servizi in sala montaggio, cosa che ormai non si fa più, perché al giornalismo d’inchiesta si preferiscono i talk. Questione di costi sì, ma anche un fatto culturale, perché «oggi i leader politici sono piccoli, i funzionari Rai ancora più piccoli. È tutto più piccolo, in Italia e in Europa, tant’è che arriva la pandemia e il vaccino lo scoprono ovunque tranne che nell’Ue».

Dopo quarant’anni che studi la mafia, cosa hai imparato dall’incontro con Avola?
«La mafia delle bombe, quella pre-Tangentopoli, aveva capito prima dei magistrati e di noi giornalisti, che i partiti erano morti e non controllavano più la televisione. Quando con Maurizio Costanzo, nel settembre del ’91, organizzai la serata Rai-Fininvest per commemorare Libero Grassi, Cosa Nostra avvertì il desiderio di libertà e rivolta che c’era in quel teatro ed emise tre condanne a morte: per me, Maurizio e Pippo Baudo, che invocò misure più dure e meno garantiste».
Perché fu così importante quella serata?
«Perché la mafia capì che Giovanni Falcone stava modificando le leggi per combattere Cosa Nostra. La politica, a sua volta, lo lasciava fare per salvarsi dalla rabbia popolare ed era disposta a cambiare le regole penali che da sempre favorivano i boss, ritenendoli responsabili di omicidi e attentati utilizzando le dichiarazioni dei pentiti».
Su Falcone lei ha cambiato giudizio?
«Lo ritenevo intrappolato nel Palazzo, strumentalizzato. Invece, introducendo con Martelli il principio della rotazione dei collegi giudicanti, che sottrasse a Carnevale il monopolio delle sentenze sui boss, stava condannando a morte se stesso e Scopelliti, al quale irritualmente aveva operato per affidargli il ruolo d’accusa nel maxi-processo a Cosa Nostra. Ma anche altri».

E quali altri?
«Proprio quei politici come Lima che noi ritenevamo formassero ancora un unico blocco con la mafia».
Vicende lontane…
«Fondamentali però per capire che la mafia raramente affilia i politici e comunque non prende ordini da loro, semmai li dà».
E tutte quelle puntate su Berlusconi e la mafia con il figlio del sindaco Ciancimino testimone d’accusa?
«Non ho mai inseguito teoremi personali. E quando ho capito che Ciancimino su alcuni punti nodali mi voleva portare a spasso sul nulla, l’ho mollato».
Però intanto ci hai dato dentro…
«Ma io sono un narratore, non un magistrato, e vuoi mettere la potenza del racconto del figlio di un mafioso di quella grandezza?».
A quale verità giornalistica, se non giudiziaria, sei arrivato?
«Che né Berlusconi né Marcello Dell’Utri abbiano potuto ordinare a Cosa Nostra le stragi. Ma che Cosa Nostra ha valutato politicamente che con l’arrivo al potere del leader di Forza Italia si sarebbero creati equilibri a lei favorevoli. E a quel punto le stragi sono finite».
Però oggi la mafia non c’è, lo dice Avola nel tuo libro…
«Dice che non si sa più cosa sia; e per questo non la si riesce neppure a combattere».

 

(Nella foto Michele Santoro)