Pubblicato il 11/02/2021, 19:02 | Scritto da La Redazione

Vittorio Sgarbi entusiasta del film su suoi genitori

Sì, Rina e Nino sono così. Innamorati in eterno

Il Giornale, pagina 25, di Vittorio Sgarbi.

Mi avvicino nella notte a Ferrara, dopo aver visto con emozione, condivisa da tanti, la privata proiezione, attraverso Sky, del film di Pupi Avati Lei mi parla ancora, tratto da uno dei quattro libri di mio padre: Lungo l’argine del tempo, Non chiedere cosa sarà il futuro, Lei mi parla ancora, Il canale dei cuori. Dormirò nella Locanda dell’Annunziata, in prossimità del Castello Estense, dove si apre la mostra dedicata a un solo dipinto di Giovanni Boldini, il ritratto animato della contessa Berthier de Leusse, affidato a tempo indeterminato ai nostri musei da una proprietaria innamorata, ma prudente. Alcuni monumenti della città, con ordine e discrezione, sono nel film. Non i più clamorosi, non il Castello, non piazza Ariostea, non Palazzo dei Diamanti, ma gli scorci che hanno a che fare con i luoghi vissuti dai miei genitori, oltre alle case di campagna e al fiume.

La scelta, suggerita dal libro e da mia sorella, è pertinente. Le prime, memorabili inquadrature documentano le architetture circostanti gli spazi fisici e psicologici del giorno del matrimonio, nella piccola chiesa di San Gregorio, tra via Cammello, via Carmelino, vicolo del Granchio, fino a via Giuoco del Pallone. Nelle riprese, a poca distanza dalla casa dei miei nonni, di mio zio e ora di mia sorella, la casa di Brunoro Ariosti, fratello di Ludovico, che vi abitò e vi ambientò alcuni dei suoi testi teatrali, vediamo l’arioso porticato, mille volte percorso, di casa Minerbi, al cui interno ridono e soffrono le virtù e i vizi in alcuni fra i più antichi affreschi ferraresi. Di lì inizia il corteo nuziale, e si stringono le mani, promettendosi fedeltà e immortalità, i novelli sposi.

I genitori

La foto di copertina del libro, nella edizione definitiva de La nave di Teseo, ci mostra, in quell’alba degli anni Cinquanta, due ragazzi consapevoli e indicibilmente eleganti, che i giovani attori, Isabella Ragonese e Lino Musella, interpretano con straordinaria identificazione. Lì, davanti a casa Minerbi, mia madre attraversa la strada per raggiungere mio padre che l’attende sotto i portici, e viene quasi investita da una Alfa Romeo 1900 di amici invitati alle nozze. È un’intuizione felice, spontanea, che trasmette vitalità ed entusiasmo. Poi riguardi la fotografia, che ferma per sempre quel momento, e ti rendi conto che non può essere accaduto. I due incedono regali, con discrezione ed eleganza: lui, magrissimo, con il doppiopetto scuro, una cravatta grigio argento, e il fazzoletto bianco che spunta dal taschino, i capelli tirati indietro, con una sobria scriminatura; lei, con un tailleur informale color panna, la camicia bianca e, invece dell’abito da sposa, ricusato per naturale insofferenza (quando milioni di ragazze si sposano per indossarlo), un velo leggero sui capelli e il bouquet di fiori tra le mani.

Isabella Ragonese, nella sua maliziosa semplicità, ne intercetta una componente del carattere fiero, declinandolo in risoluta dolcezza. Ma la foto parla, da subito, a far intendere la natura ribelle e dominante di mia madre, a fianco dell’esile e contenuto consorte. E lei che guida, che decide, che sceglie la direzione. Lui segue. E ha la stessa fragilità esibita dal delicato Lino Musella. Poi la geografia dei luoghi si dipana tra il fiume, le locande e le case di campagna: la casa madre di Ro, con dovizia d’interni, con collezioni di quadri e sculture, mai esaltate, sempre in penombra, nella luce tenue degli anni tardi, o in infilate di insieme di alcune sale. E la casa della vita, il tempio che io ho arredato e che mia sorella (interpretata con nevrotica verosimiglianza da Chiara Caselli) consacra, perché in quegli spazi vede ancora muoversi i nostri genitori.

Il regista

E Pupi Avati li ha rianimati, facendoli riattraversare da Renato Pozzetto, perfettamente calato nelle vesti di Nino, e da Stefania Sandrelli, interprete degli anni più dolorosi di Rina. Sarà stata così, come lui la vede e la racconta, l’intimità delle loro notti. E poi c’è la casa di mio padre, prima del matrimonio, a Stienta, sull’argine veneto del fiume: Iì abitavano mia nonna Tina e le mie zie, Angiolina, Lidia, Nelly, e la prozia Liduina, specchiata da una perfetta Rita Carlini.

Era la casa attigua al mulino di famiglia, proprietà di mio nonno Vittorio, di leggendaria eleganza e galanteria, e che, attraverso il mulino, diede, nel 1913, per la prima volta, la luce elettrica al paese. La ricostruzione degli interni e dei caratteri è perfetta, e non va intesa come un contrasto di classe, tra mondo contadino e mondo cittadino, ma come contrapposizione tra mentalità ferrarese, di ascendenza pagana, e suggestioni romagnole (mia madre è nata a Santa Maria di Codifiume di Argenta, ai confini con il ravennate) e sensibilità veneta, meglio polesana, con venature di bigottismo e di ipocrisia. I due erano veramente complementari, e caratterialmente contrapposti: lei fuoco, lui acqua. Lei sulfurea, lui pacato, benché avesse conosciuto la furia del fiume nella alluvione del 1951, poco dopo la serafica fotografia del giorno del matrimonio.

 

(Nella foto Vittorio Sgarbi)