Pubblicato il 05/01/2021, 19:05 | Scritto da La Redazione

Letizia Moratti: La serie su San Patrignano è un’occasione persa

Letizia Moratti: «San Patrignano oggi è un bene del Paese. Quel docu-film un’occasione persa»

Corriere della sera, pagina 19, di Elisabetta Soglio.

L’impegno di Letizia e Gian Marco Moratti a San Patrignano è sempre stato accompagnato da una grande discrezione. E la scelta, questa volta, di fare un’intervista è un’altra prova d’amore nei confronti dei «ragazzi». Perché la serie di Netflix che ha riacceso i riflettori sulla controversa figura di Vincenzo Muccioli e sul passato di San Patrignano, un passato lontanissimo in realtà per contesto storico, sociale e culturale, ha colpito soprattutto loro: i «ragazzi», che torneranno di continuo in questa chiacchierata con Letizia Moratti.

Che cosa ha significato Vincenzo Muccioli per lei e per suo marito?
«La mia è una famiglia fortunata e con Gian Marco avevamo sentito il dovere di dare un contributo alla società e alle persone che avevano bisogno. Quelli erano anni difficilissimi per il tema delle tossicodipendenze che stava esplodendo e abbiamo da subito creduto al progetto pionieristico di Vincenzo. Siamo arrivati a San Patrignano nel settembre del 1979, c’erano una quindicina di ragazzi ospitati e quella è diventata la nostra seconda casa: vivevamo in una roulotte con Gian Marco e i miei figli e per 40 anni tutti i nostri weekend, ogni Natale, Pasqua e ogni vacanza estiva noi siamo stati lì, con i ragazzi».
Un progetto che avete condiviso?
«Un progetto che prendeva forma poco alla volta, in base ai bisogni. In quegli anni migliaia di famiglie erano travolte dalla tragedia della droga, lo Stato era impreparato, in ospedale non venivano accettati i ragazzi che dovevano disintossicarsi, tranne a Niguarda a Milano dove lavorava un’assistente sociale illuminata. Poi è arrivata l’Aids ed è stato un altro colpo per tutti: la comunità li accoglieva, rispondeva alla disperazione dei genitori, cercava di ricostruirli come persone».
E le regole di Muccioli?
«Anche le regole si facevano insieme. All’inizio nel fine settimana si poteva uscire, poi erano stati alcuni di loro a dirci che se il sabato sera andavano in discoteca non riuscivano a non bucarsi di nuovo. E si è deciso di chiudere. Oppure ricordo una ragazza alcolista, la prima seguita con questo problema: a tavola c’erano le bottiglie di vino e lei beveva. Allora i ragazzi decisero che ciascuno potesse avere un solo bicchiere di vino perché così avremmo aiutato anche lei»

Il vostro rapporto con Vincenzo Muccioli com’era?
«Muccioli è stato l’uomo che ha avviato il progetto: per noi l’esperienza non era Muccioli, ma San Patrignano, e limitare tutto il racconto della comunità alla storia di un uomo non rende merito all’impegno di tutti i ragazzi per far crescere San Patrignano in ciò che è oggi per il nostro Paese».
E gli anni del processo a Muccioll, del carcere, delle violenze? Come li avete vissuti?
«Abbiamo cercato di essere il più possibile a fianco dei ragazzi e loro non si sono mai fermati di fronte alle difficoltà. Quando Vincenzo è stato in prigione sarebbe potuto finire tutto, invece i ragazzi hanno scelto di restare e di continuare quel grande lavoro: l’hanno vissuta come una sfida ed è stato anche lì che si sono poste le basi per una nuova gestione, quella attuale».
Sono stati commessi errori?
«Probabilmente sì. Ci sono stati episodi drammatici inseriti in un contesto storico già drammatico di suo. Ma si impara anche dagli errori e questa è stata la forza di quella esperienza che ha continuato a evolversi per stare al passo con i bisogni».
È esistito un “Metodo San Patrignano”?
«Se si intende un metodo di violenza, assolutamente no. Come dicevo, il metodo si è costruito assieme ai ragazzi ed è evoluto con il tempo perché intanto succedevano tante cose: sono nate altre comunità con cui confrontarci e discutere, anche lo Stato ha affrontato il problema, il livello di consapevolezza e anche lo studio del fenomeno si è approfondito. Al modello San Patrignano si è ispirata una decina di comunità in tutto il mondo».
La principale differenza fra ieri e oggi?
«I ragazzi che accoglievamo allora erano più violenti ed emarginati: molti venivano da esperienze politiche forti, avevamo picchiatori fascisti ed esponenti della sinistra più estrema che si rifugiavano nella droga come gesto di rifiuto e disprezzo della società. Oggi l’età media si è abbassata, usano la droga per emulazione o per noia: ma l’emergenza rimane».
La comunità ha preso le distanze dal docu-film di Netflix uscito da pochi giorni. Lei cosa ne pensa?
«Forse sono troppo coinvolta per un giudizio. Di sicuro mi ha colpito rivivere la disperazione di tante mamme che allora vedevano Sanpa come unica speranza. E mi ha colpito che nonostante alla regista fossero state completamente aperte le porte, a me e a tantissime delle persone che ci hanno contattato e ci stanno contattando in questi giorni è parso di vedere solo le ombre. Penso sia stata un’occasione persa, perché la droga rappresenta ancora oggi una emergenza e molti giovani affrontano il tema con la fragilità e le insicurezze tipiche della loro età. Non aver raccontato nessuna delle storie di fragilità che poi sono diventate forza e vita piena è stata un’occasione persa».

 

(Nella foto Letizia Moratti)