Pubblicato il 29/06/2020, 17:33 | Scritto da La Redazione
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Com’era bella la mia Rai

La Rai di chi l’ha fatta e non la guarda più

Il Foglio – Inserto, pagina 3 di Marianna Rizzini.

“Lo dico subito: io la televisione non la guardo”. Ma se la premessa è questa, e cioè che lui – Angelo Guglielmi, storico dirigente Rai, critico letterario, cofondatore del Gruppo 63, a un certo punto anche assessore nella Bologna di Sergio Cofferati – non guarda (calcio a parte) la tv di cui tanto si parla all’alba della solita diatriba estiva sui palinsesti Rai, non è detto che la premessa faccia l’uomo.

Anzi. Guglielmi non guarda, ma è come se vedesse e avesse già visto, perché la tv se l’è inventata, da direttore di Rai 3, negli anni d’oro della rete, tra il 1987 e il 1994. E anche prima, quando ricopriva in Rai altri incarichi, di questo si era occupato, e per molti anni, a volte sbalordendo il telespettatore e la dirigenza (una cosa su tutte: il teatro inchiesta). Per non dire del resto: letteratura e avanguardia, in un’epoca in cui essere un critico poteva voler dire far uso di ferocia, ed esserne colpiti. E sempre lui, Guglielmi, che sull’impossibilità della Rai di essere autarchica ha scritto un libro, nel 1983 (“Rai tv-l’autarchia impossibile”), con il suo ex vice a Rai3 Stefano Balassone, sorride quasi con tenerezza, mezzo nascosto dietro il mare di libri che ricopre il tavolo del suo studio, quando gli si parla della linea degli attuali vertici Rai, nel momento in cui tutt’attorno si solleva il coro di incoraggiamento “la Rai durante la pandemia ha ripreso il suo ruolo di servizio pubblico”. La linea è: rendere la Rai più autarchica, intanto nel senso della riduzione del potere degli agenti, dell’uso delle risorse interne e dell’abbattimento dei costi, con conseguente (e temuto) taglio dei compensi per le star del piccolo schermo.

Una Rai che non c’è più

Quando poi gli si nominano i sovranisti e gli antisovranisti, Guglielmi di nuovo sorride, e ricordando altri eserciti, quelli visti quando in Rai, tv di stato, la spartizione era teorizzata, applicata, inseguita, dichiarata nel modo in cui si agisce “in questo paese accomodante”, dice: “Un paese non severo, di compromessi, un paese in cui essere tv di stato voleva dire essere tv del governo e quindi dei partiti. Ci si rendeva conto che ci si stava spartendo qualcosa che in teoria non doveva appartenere a nessuno? Forse. Fatto sta che poi lo si chiamava pluri-culturalismo: tre reti per tre culture, la cattolica, la comunista, la socialista”. E se quella è la nota origine del male, dice Guglielmi, e se, “a differenza di altri paesi, non ci si limitava, dal governo, a scegliere un direttore generale”, i ricaschi di quelle scelte arrivano fino a oggi, ma senza avere più la giustificazione del contesto.

“La Rai di Ettore Bernabei era una Rai educativa, e allora l’intento era anche pregevole. Come si diceva: bisognava far scendere gli italiani dagli alberi. Nel 1955, quando fu inaugurato il servizio pubblico televisivo, l’Italia contava infatti un 55 per cento di analfabeti. Molte persone hanno appreso dai documentari l’esistenza dei deserti o dei grattacieli; guardando la tv hanno capito chi fossero Stendhal o Dostoevskij. E Shakespeare, grazie al teatro in tv del venerdì. Certo, quella tv usava un linguaggio magari sporco e brutto, ma permetteva agli italiani di intendersi da nord a sud. E sì, poi era anche un organo spartitorio”.

 

(Nella foto Angelo Guglielmi)