Pubblicato il 11/10/2018, 19:03 | Scritto da Gabriele Gambini

Max Brigante: Io quasi stalker di Francesco Guccini, pur di averlo in radio

Max Brigante: Oggi il rap vince sul rock nell’intercettare il linguaggio dei giovani

Ospiti, nei recenti tre anni della sua trasmissione 105 Mi Casa, ne ha avuti a bizzeffe. Ha giocato con loro, si è infilato nei meandri del botta e risposta, trasformando il piacere estetico di una conversazione in una necessità impellente. Ma quel che viene detto in un programma radifonico è spesso merito di quel che viene occultato. Non per volontà, spesso per esigenze spazio temporali. E qui entra in gioco Fuori Onda. Quello che non avete sentito in diretta (Mondadori), primo libro di Max Brigante. Lo speaker e deejay di Radio 105, tra i maggiori conoscitori dei linguaggi musicali in Italia, sfodera il lato B dei suoi incontri professionali.

Joe Bastianich, Federico Buffa, Piero Chiambretti, Coez, Francesco De Gregori, Danilo Gallinari, Giovanni Gastel, Elio Germano, Ghali, Francesco Guccini, Valeria Imbrogno, Jovanotti, Paolo Maldini, Negramaro, Gessica Notaro, Laura Pausini, Vasco Rossi, Renzo Rosso e Massimiliano Sechi.

Per ciascuno, un aneddoto, una matassa disvelante che si sbroglia: che ne sa l’ascoltatore, della fatica fatta per avere Francesco Guccini in trasmissione?

Max, c’è una grossa differenza tra il chiacchierare con un ospite in trasmissione e farlo nel backstage a microfoni spenti?

La differenza non è così netta, ma quando si trascorrono tante ore con una persona, emergono sfaccettature difficili da raccontare in una diretta. Da lì nasce l’idea del libro. Portare alla luce aspetti meno noti del mio lavoro, raccontati attraverso l’anima del mio programma: gli ospiti.

L’asse narrativo portante del libro è l’aneddotica.

Non ho un aneddoto madre a cui pensare, il libro ne è pieno. Ma quando mi chiedono qualcosa sui personaggi raccontati, penso alla confortante normalità di Paolo Maldini. Riesce a mantenersi ordinario nei modi pur essendo una leggenda vivente. È arrivato in radio da solo, ha pagato il parcheggio, mostrato i documenti alla reception. Sono suo amico da anni e il suo modo di essere non smette di stupirmi.

Francesco Guccini e Ghali. Un gap anagrafico evidente, una capacità affine di intercettare, pur con le dovute distinzioni, lo spirito generazionale del loro tempo.

Guccini ha saputo essere l’antesignano inconsapevole dei rapper. I primi dissing in Italia sono stati fatti da lui, il suo linguaggio dirompente nell’intercettare una generazione e nel saperla raccontare ha avuto pochi eguali. Ma che fatica, averlo come ospite. Ho dovuto perseguitarlo per due anni. Quasi uno stalking.

La leva per convincerlo?

La prima volta l’ho incontrato per caso a Milano. Lui era in un albergo di corso Garibaldi, io stavo camminando e l’ho notato al di là del vetro dell’atrio. Mi sono fiondato, presentandomi. Mi ha guardato come si guarda un fan un po’ pazzo e mi ha liquidato. Ma nel tempo ho insistito, cercando di far pressione anche su chi lo conosce bene. Quando è arrivato, è stato meraviglioso.

Poi c’è Ghali, si diceva.

Lui rappresenta il rap italiano di nuovissima generazione. Potrei ottenere una cattedra in Ghalilogia, da quanto l’ho studiato come fenomeno. Tutti i figli dei miei amici ascoltano le sue canzoni. E i genitori spesso non ne comprendono il motivo. Quando il salto generazionale genera incomprensione estetica tra padri e figli, significa che si sta scrivendo un pezzo di Storia.

A proposito di Storia. Il rap svolge oggi presso i giovani ciò che il rock aveva svolto nei decenni passati?

Decisamente. I rapper hanno sintetizzato con sapienza il linguaggio delle nuove generazioni. Sfoderando anche quel briciolo di rabbia inevitabile per rappresentare le foga di chi si affaccia al mondo e vuole cambiarlo. Il rock è stato soppiantato. Resistono le band storiche, ma la musica è ciclica e in questo momento il rock ha bisogno di rinnovarsi nei contenuti se vuole parlare a chi non lo conosce.

Nasce un inevitabile confronto tra linguaggi e mezzi: la tv, coi suoi talent show, costruisce solo uno spettacolo autocelebrativo o è un viatico per costruire una carriera musicale?

I The Jackson 5 già a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 cercavano di esibirsi in tv per promuovere il loro repertorio. Significa che la televisione è un’opportunità. Tecnicamente i talent show tirano l’acqua al loro mulino, come è giusto che sia, privilegiando la componente dello spettacolo. Ma costituiscono un’occasione di visibilità per l’emergente che sa sfruttarli al meglio.

Nella sua carriera, c’è stato un momento in cui Max Brigante ha capito che poteva fare della musica un mestiere?

L’ho capito davvero quando ho iniziato a pagarmi le bollette con la musica. Non ho mai contemplato un piano B. Volevo diventare deejay e conduttore e non ho smesso di crederci.

C’è un progetto da realizzare che ancora non è andato in porto?

Provare a sovrapporre il linguaggio radiofonico della mia trasmissione con la tv. Sono convinto sia possibile con i dovuti accorgimenti, senza snaturarne lo spirito. L’empatia con gli ospiti, avere in studio Laura Pausini che ti parla in dialetto. L’atmosfera non muterebbe. Lo schermo potrebbe amplificarla.

Gabriele Gambini

(nella foto Max Brigante)