Pubblicato il 28/09/2018, 19:03 | Scritto da Gabriele Gambini

Maria Latella: Faccio domande per capire, non mi metto mai al servizio dei politici intervistati

Maria Latella: Faccio domande per capire, non mi metto mai al servizio dei politici intervistati
Ogni sabato conduce L'intervista di Maria Latella su SkyTG24, ogni mattina commenta i fatti d'attualità su Radio24: TvZoom ha incontrato la giornalista Maria Latella.

Maria Latella: Quando ho intervistato Steve Bannon le cose si stavano mettendo male: l’ho interrotto in un paio di occasioni e lui minacciava di andarsene. Poi ha capito il perché delle mie domande ed è rimasto

Fin dalla caduta della Prima Repubblica, l’Italia più di ogni altro Paese in Occidente è diventata il laboratorio di sperimentazione dei nuovi meccanismi comunicativi della politica odierna. Dalla rivoluzione del linguaggio – gli affettati arcaismi dell’era democristiana sostituiti dalla retorica strapaesana dell’inedito Bossi e dalla rassicurante teatralità del berlusconismo prima maniera, l’avvento di Grillo e le alterne vicende del PD a trazione renziana – alla trasformazione della contrapposizione destra/sinistra in sovranismo/europeismo. La mutazione di una genesi particolare in una validità più grande.

Parola di Maria Latella, che la politica ha iniziato a raccontarla nel 1993 e ora, con il dodicesimo anno alla conduzione de L’intervista di Maria Latella su Sky TG 24 (ogni sabato alle 11.35), con 24 Mattino su Radio 24, con i libri pubblicati (ultimo in ordine di tempo, Fatti privati e pubbliche tribù: storie di vita e giornalismo dagli anni sessanta a oggi, edito da San Paolo) può viaggiare su un doppio binario professionale: la cronaca e l’analisi, con la rielaborazione approfondita dei temi trattati.

Siamo in un’era in cui la politica, con l’ausilio della tv e dei social, ha modificato forma e linguaggio.

Il cambiamento degli anni recenti è epocale rispetto al passato, e ha una genesi lontana. Ho iniziato a occuparmi di cronaca politica nel 1993: andai a Roma, inviata da Paolo Mieli, da cronista fresca mi resi conto di quanto chi aveva vissuto la Prima Repubblica rimanesse interdetto di fronte ai nuovi linguaggi. Iniziò la Lega di Bossi, con le sue ritualità, i suoi richiami alla gente comune, le immagini a effetto come il cappio sventolato in Parlamento. Poi arrivò Silvio Berlusconi, che passeggiava sul palco della convention di Forza Italia a Roma come Frank Sinatra in My Way. L’Italia si apprestava a diventare il laboratorio politico di novità comunicative che in futuro sarebbero state ribattezzate “populismi”.

Populismi che sul piano internazionale hanno spiazzato anche gli analisti più attenti quando è stato eletto Trump alla Casa Bianca.

Trump non ha inventato nulla, ha mutuato buona parte delle novità che già Berlusconi negli anni ’90 aveva iniziato a introdurre. Due anni fa insegnavo all’Institute of Politics dell’Università di Chicago, ho visto con i miei occhi l’ascesa di Trump, dissi ai miei studenti che avrebbe vinto lui e mi guardarono come un’europea un po’ bizzarra.

Ha ragione chi dice che la contrapposizione politica oggi, anche nei talk show, è tra sovranisti e globalisti?

Nessuno ha più tanta voglia di definirsi globalista. Persino Peter Mandelson, braccio destro di Tony Blair, ha ammesso che parte degli auspici della globalizzazione sono stati disattesi. Forse oggi la contrapposizione è tra sovranisti e europeisti, o tra quelli del “qui” e quelli dell’ “ovunque”. La differenza è che spesso chi caldeggia l’ “ovunque” fa parte di un’elite che non riesce a comunicare con i localisti che vivono nei borghi e nelle periferie. I primi a volte sostengono che andrebbe tolto il diritto di voto a chi vive nelle piccole comunità, viceversa i secondi accusano le elite di aver perduto ogni identità di riferimento. Risultato: ci si urla addosso, ma non ci si confronta.

Il risultato è una perdita di contatto di entrambe le fazioni col mondo reale?

Negli anni ’60 l’avvocato tipico di New York prendeva la metropolitana. Oggi va in giro con l’autista. Questo è un esempio di difficoltà comunicativa.

Però ci sono i social. Di Maio e Salvini devono buona parte dei loro successi al loro utilizzo sapiente.

Loro sono politicamente esplosi anche grazie ai social perché si rivolgono direttamente alla gente. Ma non è un elemento tranquillizzante. Quando ti rivolgi a milioni di persone su Facebook o Instagram non hai il contraddittorio che potresti avere trovandoti di fronte un giornalista preparato che ti incalza su temi precisi.

Quello che fa lei ne L’intervista.

Cerco di fare domande per capire, evito di lenire i bisogni narcisistici del politico di turno.

Un’intervista particolarmente significativa del suo passato recente?

Steve Bannon, guru trumpiano. A un certo punto le cose si stavano mettendo male: l’ho interrotto in un paio di occasioni e lui minacciava di andarsene. Poi ha capito il perché delle mie domande ed è rimasto. Il mio approccio resta sempre lo stesso, né arroganza, né sudditanza.

Il vento populista in Europa è destinato a soffiare a lungo?

Dipende. Stanno avvenendo alcuni aggiustamenti di tiro. La sinistra deve differenziarsi dai sovranisti ma non può più giocare a fare il partito dei ricchi, benché non sempre l’abbia fatto, ma così in parte è stato percepito da molti. In Germania sta facendo passi interessanti Oskar Lafontaine, nel Regno Unito Jeremy Corbin. Lo stesso Macron ha preparato una manovra espansiva.

Dalla tv alla radio: due mondi contigui ma separati. C’è differenza nel suo modo di fare giornalismo al cospetto dei due mezzi?

Per arrivare in radio mi sveglio alle 4 di mattina. Quella è già una grossa differenza. A parte questo, in radio mi occupo maggiormente di attualità all’ordine del giorno. Leggo ciò che scrivono i colleghi e do una chiave interpretativa. Spesso occorrono colpi di fortuna: in una recente puntata avevamo come ospite l’ex ministro Calenda mentre le agenzie battevano la notizia dell’abbandono del patto di Mediobanca da parte di Bollorè. L’argomento da affrontare era già pronto.

Gabriele Gambini

(nella foto Maria Latella)