Pubblicato il 20/07/2018, 19:03 | Scritto da Gabriele Gambini

Ester Elisha: In tutto può succedere 3 Feven sceglie la famiglia ma ci saranno colpi di scena

Ester Elisha è per metà bresciana e per metà ha origini del Benin: allieva del maestro Kuniaki Ida, ha all’attivo parecchi ruoli a teatro, al cinema (Là-Bas, Last Minute Marocco), in tv (Boris, Don Matteo 5, Il Commissario De Luca)

Recitare è una malattia curabile recitando. Parola di Ester Elisha, la Feven di Tutto può succedere 3 (ogni lunedì in prima serata su Rai1), che fa della consapevolezza arrendevole verso il suo mestiere un giogo che la lega a esso come un gioco. Perché in fondo, se arrivi a trent’anni e fai esattamente ciò che ti eri ripromessa di fare a venti, non puoi non divertirti.

Tre stagioni per Feven in Tutto può succedere. Un’evoluzione inevitabile per il personaggio.

Feven ha dato precedenza alla sua famiglia, ha fatto scelte precise limitando alcune prospettive della sua carriera di musicista. Le viene proposto di andare a Milano per insegnare in Conservatorio ma sceglie di restare a Roma. Salvo poi pentirsi. Con conseguenze che il pubblico scoprirà.

Anche Ester Elisha interpretando il personaggio si è evoluta.

Con la lunga serialità il rischio è di adagiarsi troppo sul ruolo interpretato senza cercare nuove suggestioni. Ho cercato di mantenermi vigile sotto questo aspetto. Ogni stagione in effetti porta in dote elementi di novità.

Feven sacrifica se stessa per la famiglia ma poi si pente. Lei come si comporterebbe di fronte a un bivio del genere?

Non riuscirei a accettare un lavoro che mi portasse lontana da casa tutto l’anno. Benché il mestiere di attrice consenta spesso di viaggiare. Talvolta per due, tre mesi all’anno. Per conciliare tutti gli aspetti occorre grande energia.

Tutto può succedere è l’adattamento italiano della serie Parenthood.

Ho visto tutta la serie americana. Piangevo e ridevo allo stesso tempo. Ho capito come si sente il pubblico nel guardarla. Certo, la versione nostrana è stata rielaborata per renderla riconoscibile agli spettatori italiani. Tuttavia, con le dovute distanze, mantiene un’atmosfera di fondo omogenea, in linea con l’originale.

A che punto è della sua carriera?

Difficile stabilirlo. Però mi guardo indietro e sono soddisfatta. Avrei voglia di tornare al cinema e in teatro.

Farebbe scelte diverse col senno di poi?

Col senno di poi siamo bravi tutti a giudicare. A trent’anni ho una consapevolezza diversa rispetto a quando ne avevo venti. Ma non mi sono mai posta domande a lungo termine su questo versante. E mi ritengo soddisfatta di dove sono ora, pur guardando oltre.

Che cos’è la recitazione?

Una malattia.

Curabile?

Curabile recitando.

Mai pensato ad alternative?

Mai.

Curioso. Molti attori rispondono così.

Fa parte della malattia.

Un ruolo che le manca?

Un bel film d’azione, magari col greenscreen. Oggi anche in Italia c’è fermento creativo. Ci sono tanti progetti innovativi. Penso a film come Lo chiamavano Jeeg Robot. All’avvento di Netflix, che consente prospettive prima impensabili.

La lunga serialità ha l’appalto sulla narrazione del contemporaneo.

Perché unisce tante teste pensanti in fase di lavorazione, consente libertà ampie e diventa quasi una sorta di romanzo popolare a disposizione di tutti.

Esiste un’Ester che non fa l’attrice. Che cosa fa, in quel caso?

Viaggio. La prossima meta sarà Cuba. In generale amo il mare, soprattutto la spiaggia di Capalbio.

Gabriele Gambini

(nella foto Ester Elisha)