Pubblicato il 21/05/2018, 12:04 | Scritto da Guglielmo Cancelli
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Ecco cos’è successo a Tidal, il flop del servizio streaming delle star

Tidal è stato lanciato da Jay-Z nel 2015

Era il 2015, ma – a rileggere anche solo i titoli degli articoli scritti allora – pare un paio di ere geologiche fa. C’era una volta una promettente start-up norvegese – Tidal – pronta a fare sfracelli sul nascente – e molto appetibile, finanziariamente parlando – mercato dello streaming musicale.

Un artista-imprenditore molto famoso e molto ricco – Jay-Z – decise di metterci le mani sopra per fare la storia dell’industria musicale. Non semplicemente comprandosela, come avrebbe fatto un qualsiasi magnate russo, emiratino o cinese, ma facendo se possibile ancora di più: comprandosela, e coinvolgendo nell’operazione una vasta schiera di colleghi di primissimo ordine disposti a diventare co-proprietari del canale attraverso il quale distribuire i propri lavori. Una specie di cordata di capitani coraggiosi pronta ad accorciare la filiera eliminando l’intermediazioni delle grandi piattaforme di distribuzione come Spotify, Deezer, Pandora, Apple Music e tutte le altre, insomma.

E così, dopo una presentazione in pompa magna con il buon Sean Carter a dirigere un coro composto da Madonna, Daft Punk, Kanye West, Jack White, e un altro paio di dozzine di star di altissimo livello, sui giornali online e non fu un fiorire di “rivoluzionario”, “epocale”, e sdilinquimenti vari ed eventuali. Tutti, in sostanza, erano già saltati sul carro del vincitore, dimenticandosi però di un piccolo ma fondamentale dettaglio: il carro non era ancora partito.

Le esclusive fornite dagli artisti-proprietari e la qualità superiore della riproduzione audio non bastarono a fare decollare la piattaforma, incalzata da più parte da competitor meno cool agli occhi del pubblico ma decisamente più pragmatici. Il mercato sa essere spietato, deve aver pensato Jay-Z, che il mercato lo conosce bene: iniziò così un serratissimo avvicendamento di amministratori delegati, che vide sedersi sulla poltrona di CEO quattro persone diverse in poco più di due anni. Ma, proprio come nel calcio, difficilmente il cambio di allenatore prelude a una brusca inversione di tendenza nei risultati.

Veniamo così ai giorni nostri. Secondo un’inchiesta della testata norvegese Dagens Næringsliv Tidal, nel 2016, avrebbe manipolato i dati degli streaming di artisti come Beyoncé – guarda caso, la moglie del capo – e Kanye West – riguarda caso, l’amico del capo, poi però chiamatosi fuori da Tidal nel 2017 – gonfiandoli non solo per guadagnare prestigio a livello mediatico, ma anche per generare massicci pagamenti in termini di royalties alle relative case discografiche. L’ad in carica di Tidal, Richard Sanders, ha negato, parlando di violazione di dati riservati e parlando di “campagna diffamatoria” ai danni dell’azienda. Cosa tutto sommato non implausibile, se non fosse che a preoccupare Sanders – a nostro avviso – dovrebbe essere altro.

A marzo 2018, secondo i dati raccolti dal portale americano specializzato in statistiche Statista.com, Tidal non appare nella top ten dei servizi streaming più popolari negli Stati Uniti: a fare da capofila sono Apple Music e Spotify, rispettivamente con 49,5 e 47,7 milioni di utenti mensili, seguiti da Pandora (con 36,8), Soundcloud (con 34,2) e Google Play (con 21,9). In coda si segnalano iHeartRadio (con 19,9), Amazon Music (con 12,7), Shazam (con 10,6), SiriusXM (con 7,6) e TuneIn (con 6,6).

E Tidal? Dati aggiornati ufficiali riguardo l’utenza non sono stati resi noti. Nel marzo 2016, l’azienda aveva annunciato di aver raggiunto il traguardo di 3 milioni di utenti mensili attivi, poi “ridimensionati” dall’inchiesta di Dagens Næringsliv a soli 850mila. Prendendo anche per buona la vulgata di Jay-Z, comunque briciole, a dispetto della rivoluzione annunciata che avrebbe dovuto liberare gli artisti dal giogo dei colossi del Web.

 

Guglielmo Cancelli

 

(Nella foto Jay-Z al lancio di Tidal)